

Di M. Rita Stallenghi
Introduzione
Dell’ammiraglio Federico Carlo Gravina non v’è traccia sui testi di storia in uso nella scuola italiana; quindi, è totalmente sconosciuto alla stragrande maggioranza degli Italiani.
Perfino a Palermo, sua città natale, sebbene, esista una via a lui intitolata e una targa di marmo su una facciata dell’antico palazzo Arezzo ne ricordi la nascita, credo che ben pochi sappiano chi egli sia stato e quali meriti abbia avuto, dal momento che la lapide è stata posta troppo in alto perché i passanti possano notarla.
Il palazzo Marchese Arezzo è situato a Palermo, all’incrocio tra Corso Vittorio Emanuele e Via Roma, un tempo era appartenuto ai Gravina Xirotta dei principi di Montevago[1].



Il portone d’ingresso del palazzo è nella piazzetta omonima che si apre in Corso V. Emanuele; sulla parete del palazzo che fiancheggia il portone d’ingresso, all’altezza del secondo piano, troppo in alto perché possa essere facilmente notata, è stata apposta una targa celebrativa, che insieme alla nascita di Federico Gravina, ne ricorda il coraggio “degno del suo nemico Orazio Nelson” e l’infelice destino di morire, da vinto, nella battaglia di Trafalgar.

Federico Carlo Gravina doveva avere indubbiamente notevoli meriti professionali, se da semplice guardiamarina riuscì a percorrere l’intero “cursus honorum” navale fino al grado di ammiraglio della flotta spagnola. Il suo valore fu riconosciuto persino da Napoleone, che ne apprezzò le capacità militari. Alla sua morte, il re di Spagna, in segno di gratitudine e stima, volle che le sue spoglie fossero accolte in un mausoleo a lui dedicato all’interno del Panteón de Marinos Ilustres di San Fernando, in Andalusia, luogo riservato agli ufficiali più illustri della marina spagnola. È importante ricordare questo personaggio non solo come figura di grande valore personale e militare, protagonista di rilievo nella battaglia di Trafalgar, ma anche come simbolo di un’alleanza politica e militare tra Spagna, Francia e, in senso più ampio, Italia, in un’epoca segnata da profonde trasformazioni sociali e forti tensioni internazionali.

Sulla rivista “Nuova Antologia”[2] il sottotenente di vascello Manfredi Gravina, dedica al suo illustre antenato un articolo commemorativo, percorrendone la brillante carriera e concludendo a malincuore che la patria abbia ricordato solo con una lapide questa nobile figura d’eroe.
Il corso della vita di Gravina si snoda in un contesto europeo dominato dalle guerre: da quella dei Sette Anni, alla guerra d’indipendenza americana, dall’estremo e violento sconvolgimento della Rivoluzione francese, alla nascita delle repubbliche, dall’espansione delle idee rivoluzionarie alle guerre napoleoniche.
Un periodo decisamente turbolento ma, sembra, che l’Ammiraglio Gravina non si lasciasse influenzare dai grandi mutamenti che si susseguivano nella sua epoca.
Fatta eccezione per brevi intermezzi di riposo, egli dedicò i suoi anni a un impegno indefesso nell’eseguire gli ordini ricevuti e, in veste di comandante, nel portare a termine con estrema perizia e diligenza missioni anche di notevole rischio.
La semplice aspirazione al riconoscimento personale fu la forza trainante della sua vita al servizio della Real Armada. La carriera navale di Federico Gravina è ben nota.
Uno scorcio della sua personalità può essere ricavato da alcuni resoconti contemporanei. Ma mancano informazioni private, sappiamo poco del suo mondo interiore e della sua sensibilità, delle sue abitudini e orientamenti culturali; non è possibile, quindi, tracciare il profilo completo di un uomo che in silenzio si nasconde dietro i documenti ufficiali. Possiamo solo ripercorrere le tappe della sua carriera, riconoscerne e apprezzarne i meriti.
Contesto storico
Nel 1756, anno della nascita di Gravina, i conflitti dinastici[3], che avevano insanguinato l’Europa nella prima metà del secolo, si erano spenti ma i trattati di pace non erano riusciti a soddisfare completamente le aspirazioni o i timori di tutti. Ne derivò una nuova lunga guerra durata sette anni, dal 1756 al 1763, da alcuni considerata il primo conflitto mondiale, perché fu combattuta non solo in Europa ma anche nel continente americano e nelle colonie d’Asia e d’Africa[4].
La Spagna avrebbe preferito mantenere una posizione neutrale, ma la Francia, trovandosi in difficoltà militari contro la Gran Bretagna, fece pressione sulla Spagna affinché entrasse in guerra al suo fianco, come previsto dal “Patto di famiglia”[5].
Nel gennaio del 1762, la Spagna decise di intervenire a fianco della Francia, ma l’esito di questa alleanza si rivelò disastrosa per La Spagna. Trionfatrice del conflitto fu la Gran Bretagna, che si assicurò i maggiori guadagni territoriali e politici.
La famiglia Gravina, di antica nobiltà normanna, nel corso dei secoli era rimasta fedelmente legata alla dinastia spagnola regnante in Sicilia, anche nei tempi recenti in cui in Sicilia si erano susseguite differenti monarchie[6]. In virtù dei servigi resi allo Stato, nel 1720 era stata concessa alla famiglia Gravina e ai suoi successori e discendenti la “naturalità ai regni delle Spagne” senza alcuna limitazione. Privilegio che potremmo definire come “diritto di cittadinanza” perpetuo. Tra i membri della famiglia c’era stato chi aveva prestato servizio in Spagna e chi era stato governatore di Majorca. Dal 1734, la Sicilia era tornata ad essere governata dagli Spagnoli, in quell’anno Carlo di Borbone, duca di Parma e Piacenza, nel contesto della guerra di successione polacca, guidò le truppe spagnole alla conquista dei regni di Napoli e Sicilia, riuscendo a sottrarli alla dominazione austriaca.

Durante il regno di Carlo di Borbone, i vari territori continuarono a restare formalmente separati. Carlo mantenne, infatti, le istituzioni distinte: a Napoli governava con pieni poteri come un “despota illuminato”, mentre in Sicilia lasciò attivo il Parlamento siciliano. Carlo cercò di riformare l’amministrazione e la politica dell’isola, ma si trovò a dover affrontare il forte potere dei baroni locali. In oltre quattrocento anni di dominio vicereale, la nobiltà siciliana – che aveva sempre gestito il potere in assenza del sovrano – si era appropriata di numerosi privilegi che normalmente sarebbero spettati al re.
Il tentativo di Carlo di ridurre l’influenza dei baroni e riformare la struttura politica siciliana, era fallito ma la nobiltà siciliana riconoscendo la propria sudditanza, era fedele alla corona di Castiglia e aspirava a militare sotto la monarchia spagnola.
Federico Carlo Gravina era figlio di Giovanni Gravina e Moncada, e di Eleonora Napoli e Montaperto figlia del principe di Resuttana, anche grande di Spagna di prima classe, nacque a Palermo il 2 Settembre del 1756 [7].
Non bisogna dimenticare che era ancora vigente il diritto feudale, la norma del “maggiorascato”, secondo cui il patrimonio familiare veniva ereditato per intero dal solo figlio maschio primogenito e Federico non lo era. Egli era il terzo di cinque figli; Il fratello maggiore avrebbe ereditato il titolo e le proprietà, gli altri fratelli erano destinati alla vita ecclesiastica, ma Federico fin da giovanissimo aveva manifestato passione per la vita marinaresca. Da queste premesse si può facilmente comprendere perché la famiglia lo destinasse all’inserimento nei ranghi della marina militare spagnola. Il giovane Federico completò il ciclo degli studi presso il collegio Clementino di Roma, dove si distinse sia per il suo comportamento amabile e socievole sia per la bravura nelle varie discipline, specie nel ramo matematico scientifico.
L’inizio della carriera

Nel 1775, all’età di vent’anni, grazie anche alle sollecitazioni di uno zio, ambasciatore del regno di Napoli a Madrid, ottenne l’ammissione nella Accademia della Guardia Marina di Cartagena, al servizio del re di Spagna, Carlo III[8], con il grado iniziale di
Guardiamarina e fu poco dopo imbarcato sul vascello S. Josè. L’anno seguente, promosso Alfiere di Fregata, fu destinato alla fregata Clara che faceva parte della squadra agli ordini del marchese di Casa Tilly che trasportava sulle coste del Brasile il corpo d’esercito del generale Ceballos
Spedizione all’isola di Santa Catarina
La spedizione aveva lo scopo di colpire le postazioni militari del Portogallo. Pur essendo due stati geograficamente vicini, tra Spagna e Portogallo esisteva una forte rivalità che a volte esplodeva in conflitto diretto. Le relazioni tra i due regni erano condizionate dalle alleanze con la Francia e la Gran Bretagna, come era avvenuto nel 1762, nel corso della Guerra dei Sette Anni, quando la Spagna, alleata della Francia aveva attaccato il Portogallo, protetto dall’intervento britannico. Altro motivo di attrito era la concorrenza per il controllo delle rotte marittime dei porti e delle concessioni commerciali sulle coste dell’Atlantico. Nonostante le tensioni, ci furono momenti e spazi per la cooperazione, e accordi diplomatici, ma la forte competizione generava anche momenti di contrapposizione armata come nel caso della spedizione in cui si trovò coinvolto l’alfiere di fregata Federico Gravina. Occupata l’isola di Santa Catarina, situata a qualche centinaio di metri dalla costa brasiliana, a Gravina fu assegnato il compito di intimare la resa alla fortezza dell’Ascensione.
La missione ebbe un esito positivo in quanto Gravina riuscì a persuadere gli occupanti ad aprire le porte senza opporre resistenza.
In seguito, la flotta veleggiò lungo la costa meridionale del Brasile, rimanendo ancorata per qualche tempo all’imboccatura del Rio de La Plata, finché fu dato l’ordine di salpare. Sopraggiunta la notte, l’oscurità impedì alla fregata Clara di scorgere i segnali della nave ammiraglia. Supponendo di seguire la rotta prestabilita e non potendo fare osservazioni astronomiche a causa del mal tempo, il comandante sbagliò direzione e la nave, trascinata dalle correnti, travolta dal mare in burrasca, naufragò sugli scogli perdendo così gran parte dell’equipaggio. I pochi superstiti, tra cui Gravina, riuscirono a raggiungere fortunosamente, con una scialuppa mal ridotta, Montevideo.
“Qui cade acconcio il riportare un tratto caratteristico dell’umanità di Gravina in questa circostanza. Il suo cameriere ad onta della confusione ebbe cura di raccogliere quanto v’era di meglio e di prezioso fra gli effetti del suo padrone, e con grosso fagotto cercò di aver sito sulla barcaccia; ma erano tante le persone imbarcate su quel bastimento da remo, che non v’era luogo per la roba e pel servo, e fu imposto a Gravina di scegliere fra i due; egli senza punto esitare gittò la roba tutta in mare, ed ingiunse al servo di prender posto.”[9]
A Montevideo, Gravina venne assegnato allo stato maggiore della squadra sul San Josè. Non appena si presentò l’occasione s’imbarcò per fare ritorno a Cadice, dove si vide promosso al grado di Alfiere di Vascello, pur rimanendo un ufficiale subordinato, disponeva di maggiori prerogative, come il comando di piccole unità, la sorveglianza, l’addestramento degli equipaggi.

Missione contro i corsari barbareschi

Di lì a poco gli fu ordinato di imbarcarsi sullo sciabecco [10] Pilar, che con altri due era agli ordini di D. Giovanni di Araoz, con il compito di impedire il passaggio verso l’Oceano a quattro sciabecchi algerini.
Nella seconda metà del Settecento, i corsari barbareschi algerini rappresentavano una minaccia per i traffici marittimi nel Mediterraneo e danneggiavano soprattutto gli interessi commerciali della Spagna, che cercava di proteggere le proprie rotte dalle loro incursioni, a volte attraverso trattati, ma più spesso con l’impiego di forze navali.
I quattro sciabecchi spagnoli conclusero la loro missione con successo, pattugliarono incessantemente la zona di mare frequentata dai corsari finché li intercettarono, li attaccarono e li annientarono. Subito dopo Gravina dovette affrontare situazioni molto più impegnative che gli consentirono però di dimostrare le sue capacità d’azione.
Partecipazione al blocco di Gibilterra
Nel contesto più ampio della Guerra d’Indipendenza Americana, La Spagna, alleata con la Francia a sostegno delle colonie americane, contro la Gran Bretagna, vide l’occasione di approfittare delle forze britanniche impegnate su più fronti per riprendere possesso di Gibilterra e Minorca [11]. Intraprese pertanto l’assedio della rocca di Gibilterra imponendo il blocco navale. Era l’anno 1779 [12]; Gravina partecipava alle operazioni a bordo dello sciabecco S. Luigi, quando il capitano del bastimento si ammalò gravemente, a lui fu assegnato il comando. Va ricordato un episodio sensazionale che mette in luce la sua destrezza e insieme l’ardimento e l’altruismo.

La prima notte in cui assunse il comando, incrociò una nave mercantile diretta a Gibilterra. La nave, temendo di essere abbordata, si incagliò spontaneamente sotto la torre chiamata del Diavolo. Sebbene Gravina avesse avuto il suo scafo trafitto da una palla sparata dalle batterie del monte, si impegnò comunque a combattere fino a vedere la nave completamente distrutta dalle fiamme. Fu un incendio violento e impressionante, Il capitano di quella nave fuggì per salvarsi la vita, mentre la nave, colpita sul fianco e spinta contro gli scogli vicino a una torre, si spezzò in mare ed era ormai sul punto di affondare. Nonostante ciò, il Gravina ebbe il coraggio di sfidare le onde e le fiamme per ben due volte e persino i nemici inglesi, ammirandone l’audacia, si unirono a lui per salvare i marinai.
Ascesa e Imprese militari
L’esito di questa azione valse a Gravina la promozione a Tenente di Vascello, grado che ne elevò significativamente il rango all’interno della marina. La sua carriera conobbe un rapido sviluppo, contrassegnato dal successo in diverse missioni, tra cui spicca la cattura della fregata nemica S. Firmino, e dalla partecipazione a numerosi scontri navali contro la flotta britannica, che ne arricchivano l’esperienza. All’età di venticinque anni si era già fatto notare e apprezzare per le sue capacità operative e per la sua destrezza nel portare a termine gli incarichi.

A metà maggio del 1780, il re gli affidò il prestigioso compito di Comandante in capo della stazione navale stabilita sulla punta Carnero, nella baia d’Algeciras. Gravina assolse questo nuovo e importante ruolo con notevole efficacia, testimoniata dalla cattura di ben quattro navi inglesi.
Nel giugno successivo, si unì alle forze navali guidate da D. Ventura Moreno per prendere parte all’assedio del forte San Filippo, sull’isola di Minorca. Al comando del suo sciabecco, Gravina fu incaricato di un ruolo cruciale: garantire le comunicazioni degli ordini e l’organizzazione dei soccorsi. L’impresa si rivelò ardua, ma l’ufficiale diede prova di notevole diligenza e sicurezza. Sfidando intemperie e pericoli, scortò con successo nove convogli, un contributo vitale che permise di rifornire gli eserciti spagnoli, gravemente provati dalla penuria di viveri. I duri scontri culminarono con la capitolazione di Minorca e la conquista della città di Mahon da parte delle forze spagnole.

Era urgente informare il re Carlo di Borbone della vittoria, ma il mare in tempesta impediva ogni viaggio: tre navi tentarono di partire, ma furono costrette a tornare indietro danneggiate. A questo punto, il generale Moreno affidò la missione proprio a Gravina. Nonostante le condizioni proibitive del mare, Gravina salpò con coraggio e trasportò in Spagna D. Paolo Sangro con la notizia della resa.
L’attacco a Gibilterra con le batterie galleggianti
Intanto, proseguiva il blocco navale presso Gibilterra e Gravina tornò al comando del suo sciabecco a stazionare in quell’area per continuare la difficile missione di sorveglianza.

I vertici della flotta spagnola pianificarono un attacco via mare alla fortezza con l’uso di batterie galleggianti, grandi imbarcazioni corazzate progettate per resistere al fuoco nemico. Queste navi, chiamate anche empelletados, erano grandi imbarcazioni di legno che montavano l’artiglieria su un solo lato. La loro difesa era costituita da un doppio e robusto parapetto. Per prevenire o spegnere gli incendi, l’acqua scorreva all’interno del parapetto, pompata da apposite pompe. Tuttavia, non si tenne conto che, a causa della vicinanza richiesta per essere efficaci, i proiettili incendiari nemici avrebbero facilmente penetrato lo strato esterno del parapetto. Questo avrebbe causato la fuoriuscita completa dell’acqua, lasciando così la parte superiore delle navi prive di questa vitale protezione. Come puntualmente si verificò.
Il generale, duca di Crillon, essendo stato testimone in varie occasioni della perizia di Gravina, avrebbe voluto affidare a lui la direzione dell’impresa; ma Gravina, oppose un netto rifiuto sostenendo, che vi erano ufficiali di maggior grado ed esperienza di lui per tale incarico. Accettò invece il comando d’una sola di quelle navi, nominata S. Cristoforo.

Nella battaglia del 13 settembre 1782, le batterie galleggianti rivelarono la loro vulnerabilità e inefficacia: le palle incendiarie britanniche causarono danni gravi, soprattutto alla nave San Cristoforo, comandata da Gravina. Nonostante lui stesso e l’equipaggio si prodigassero per arginare il fuoco, la nave fu distrutta e dovette essere abbandonata. Gravina riuscì a mettere in salvo l’equipaggio e per ultimo anche lui abbandonò la nave poco prima che esplodesse.
Dopo l’attacco, chiese e ottenne il trasferimento su un vascello per imparare meglio le manovre navali. Partecipò poi alla caccia alla flotta inglese dell’ammiraglio Howe, ma a causa della nebbia e della dispersione delle navi spagnole, non si riuscì a ingaggiare lo scontro.
Nel 1782, fu promosso Capitano di Vascello; in soli sette anni dal suo arruolamento in Marina, aveva già guadagnato un grado che consentiva di esercitare il comando effettivo di una nave.
Fu destinato al comando del vascello Castiglia, designato per una futura missione di conquista della Giamaica, che però non si realizzò per via della pace con gli Inglesi.
Fine delle ostilità con l’Inghilterra e con lo Stato barbaresco di Algeri
L’anno seguente, il 3 settembre 1783, il Trattato di Parigi, pose formalmente fine alla Guerra d’indipendenza americana e riconobbe gli Stati Uniti come nazione indipendente dalla Gran Bretagna.

Furono anche firmati accordi separati, tra Francia, Spagna e Gran Bretagna, che per il momento posero fine alle ostilità. Ma rimaneva ancora da risolvere, per la Spagna, il problema della pirateria barbaresca.
Nel 1784, Il capitano Gravina con lo sciabecco Catalano riuscì a mantenere un blocco navale in pieno inverno davanti ad Algeri, impresa ritenuta quasi impossibile. Grazie a un’abile operazione di spionaggio, raccolse informazioni sulle difese nemiche e le trasmise al comando spagnolo. In una nuova spedizione nel 1785, gli Spagnoli affrontarono una resistenza ben preparata (con probabile aiuto inglese), e pur mostrando grande valore, furono ostacolati dalla strategia avversaria e dai venti contrari. Alla fine, si firmò un trattato di pace con gli Algerini, che portò a una ripresa dei commerci e alla cessazione delle piraterie sulle coste spagnole del Mediterraneo
Alla corte di Spagna
Seguì un periodo di pace in cui le navi furono disarmate e agli equipaggi furono concesse licenze per riprendersi dopo le fatiche sostenute. Gravina, approfittando finalmente di un momento di tregua, trascorse alcuni anni a corte gustandone i piaceri e i divertimenti. Ma si guardò bene dall’abbandonarsi eccessivamente alle frivolezze. Al contrario, mantenne sempre un comportamento dignitoso svagandosi nelle conversazioni semplici e piacevoli degli amici, oppure dedicandosi alla lettura di opere istruttive. Era stato introdotto alla corte di Madrid grazie all’intercessione di suo zio, il principe di Raffadali, ambasciatore di Napoli. Fu benevolmente ammesso alle riunioni private, ricevette inviti a soggiornare nelle Residenze Reali e strinse amicizia con il segretario della Marina, Antonio Valdés, a sua volta, amico del principe di Raffadali. Si conservano molte lettere di Valdés a Gravina che testimoniano il suo affetto per il personaggio.
Presto entrò a far parte della “camera” del principe delle Asturie, il futuro Carlo IV, di cui divenne uno dei protetti. Questa era una strada molto efficace per trovare sostegno nella famiglia reale e fu utilizzata da altri cortigiani del suo tempo. Nonostante queste relazioni, fu sempre “nemico delle etichette”, come affermava il ministro Valdés. La frequentazione dell’ambiente di corte ebbe termine nel 1787, quando gli fu assegnato il comando della fregata Santa Rosa, con l’incarico di addestrare i giovani allievi della marina.
Viaggio ad Istambul
L’anno successivo, nel 1788, poiché il re Carlo III intendeva stabilire relazioni commerciali con il mondo musulmano, ebbe l’incarico di condurre a Istanbul l’ambasciatore ottomano presso la corte spagnola, Ahmed Vasif Efendi.

Per rendere la fregata Santa Rosa degna della missione politica che gli era stata assegnata, Gravina la fece allestire in modo confortevole, elegante e adatta all’importanza del passeggero. Attraversando l’arcipelago dell’Egeo Gravina fu colto da una profonda emozione, sia per le grandi memorie storiche dei luoghi, sia per la tirannica oppressione del dominio ottomano. Navigò lungo le celebri coste dell’antica Troia, che oggi appaiono come un deserto arido e sabbioso. Giunto ai Dardanelli, dovette attendere il firmano, cioè il permesso ufficiale della Porta(il governo ottomano), necessario a ogni nave da guerra per entrare nello stretto. Ottenuto il permesso, attraversò lo stretto. Giunto nel punto più angusto, controllato dai forti di Asia ed Europa, notò la leggendaria Torre di Ero e il luogo dove Lisandro, generale spartano, vinse la battaglia navale che nel 405 a.C. segnò la sconfitta finale di Atene e la fine della Guerra del Peloponneso. Sboccò poi nella Propontide(Mar di Marmara), con le cime della Tracia a sinistra e Costantinopoli (Istanbul) di fronte.

Il 12 maggio gettò l’ancora in quel vasto e comodo porto.
Immediatamente si dedicò alla raccolta di dati e a osservazioni astronomiche per creare nuove mappe nautiche o correggere le vecchie, essenziali per la perfezione della navigazione.
Il soggiorno a Istanbul durò soltanto un mese, ma trenta giorni gli furono sufficienti per scrivere un importante saggio, “Descripción de Constantinopla”, in cui descriveva Il clima e la vantaggiosa posizione della capitale dell’impero ottomano, per il commercio e il rifornimento alimentare. Si soffermò a considerare la fertilità del suolo e l’abbondanza della pesca, la popolazione, i costumi e la religione locali. Dedicò pagine alle ragioni dell’antica potenza dell’Impero Ottomano e la sua attuale grave decadenza. Infine, proponeva soluzioni per far rifiorire il commercio che la Spagna aveva in quelle regioni, in passato.[13]
La corte ottomana espresse grande riconoscenza a Gravina per l’ottimo trattamento riservato all’ambasciatore Effendi durante il viaggio. Sebbene le sue istruzioni gli permettessero di prolungare la sosta, lo scoppio di una violenta epidemia di peste (che aveva già colpito una nave spagnola) lo costrinse a salpare il 22 giugno. Tornò a Cadice, dove disarmò la nave verso la fine dell’estate.
Alla fine di quell’anno, il 14 dicembre, moriva Carlo III. Era stato un sovrano molto rispettato e amato per le sue riforme e il suo impegno nel migliorare il regno, e la sua morte segnò la fine di un’epoca di stabilità e progresso. Gli succedette il figlio Carlo IV.

Nel mese di Aprile del 1789, Gravina ebbe il comando della fregata La Pace, destinata a condurre a Cartagena d’India il governatore D. Gioacchino Canoveral. Questo viaggio fece scalpore per la rapidità con cui Gravina seppe condurre la navigazione. Appena rientrato a Cadice, si recò immediatamente a Madrid per assistere all’ incoronazione del re Carlo IV, in adempimento della promessa fatta a Sua Maestà prima di partire.
In quello stesso anno, la Francia, sempre alleata della Spagna, subiva una profonda trasformazione istituzionale, il popolo parigino poneva fine all’assolutismo monarchico a favore di una monarchia costituzionale. Il nuovo governo era impegnato a fronteggiare i nemici interni ed esterni della rivoluzione. Di questa fase di distrazione e di debolezza della Francia, pensarono di approfittare gli Inglesi impadronendosi, nel 1790, dell’isola di Nootka, lungo la costa occidentale dell’odierno Canada. Probabilmente, il loro intento era usare questo pretesto per scatenare una guerra e riconquistare la superiorità persa quando avevano dovuto riconoscere l’indipendenza dei mari e delle colonie americane.
Per rispondere a questa mossa, la Spagna preparò un armamento navale vasto e rapido: in due mesi, il porto di Cadice ospitava una flotta così potente da poter tenere testa a tutte le potenze europee. Il comando fu affidato al marchese del Socorro, che inviò il vascello San Francesco di Paola, guidato da Gravina, in una missione di esplorazione rapida. Gravina svolse l’incarico con grande efficacia e intelligenza. Tuttavia, le controversie con l’Inghilterra furono risolte diplomaticamente, l’armamento fu sciolto e ne seguì un breve periodo di pace.
Crollo della Fortezza di Orano
Poco dopo, la tranquillità fu interrotta da una catastrofe. La fortezza di Orano (oggi in Algeria), conquistata e persa più volte dalla Spagna nel corso dei secoli, era un possedimento costosissimo da mantenere, sia per i rifornimenti che per le immense e complesse fortificazioni. Queste includevano sette castelli e un sistema di passaggi sotterranei per muovere i soccorsi.
Nella notte del 1° ottobre 1790, un violento terremoto rase al suolo la fortezza. Il palazzo del generale crollò, gran parte delle mura si sbriciolò, e magazzini, caserme e interi quartieri furono distrutti, causando infiniti disastri. I sopravvissuti, confusi e spaventati, vagavano nudi, mentre una parte della guarnigione si diede al saccheggio invece di soccorrere i feriti intrappolati sotto le macerie.

Immediatamente furono inviati messaggeri a Cartagena per chiedere truppe e viveri. Mentre si cercava di organizzare i soccorsi e sgomberare le macerie, gli Spagnoli temevano un attacco a sorpresa. Il loro timore si rivelò fondato: i Mori, credendo che il loro profeta avesse offerto loro la piazza con mezzi soprannaturali, si presentarono per impadronirsene senza resistenza.
Arrivarono rinforzi via mare da Cartagena, tra cui il vascello San Vincenzo e navi minori. Gravina, che aveva preso il comando delle forze navali leggere e delle truppe di marina sbarcate, organizzò personalmente la difesa, posizionando le lance cannoniere e intervenendo nei punti più caldi degli scontri a terra, lavorando con coraggio e a rischio costante.
Considerando che la riedificazione di Orano sarebbe stata costosissima e che il suo possesso non bastava a frenare le incursioni dei pirati Mori, la Spagna decise di abbandonare la piazza. Fu negoziata una tregua, e l’esercito spagnolo si ritirò via terra a Mazzalquivir, il cui porto fu usato per l’imbarco.
A seguito di questi eventi, il re premiò gli ufficiali meritevoli, e Gravina fu promosso a Contrammiraglio. In seguito, ottenne il permesso di viaggiare in Europa e partì per Londra, desideroso di studiare a fondo la marina inglese. Fu accolto con molta benevolenza dall’ammiragliato e gli fu consentito di visitare l’arsenale di Plymouth. Si recò anche a Portsmouth dove ricevette le stesse attenzioni dall’ammiraglio Hood. Con Hood ebbe lunghe e istruttive conversazioni su costruzioni navali, fonderie, fabbriche e altri argomenti importanti.
L’assedio di Tolone
Intanto, però, la situazione in Francia era precipitata: il tentativo di fuga del re e le proteste contro il carovita, avevano indotto la Convenzione a dichiarare guerra alle monarchie assolute. Erano seguite la proclamazione della Repubblica, la condanna a morte del re, la sanguinosa repressione delle insurrezioni realiste nella Vandea e in varie città.
Dopo l’esecuzione di Luigi XVI di Francia, il 21 gennaio 1793, anche il governo spagnolo, guidato da Manuel Godoy, [14] aderì, insieme al Regno di Gran Bretagna, e alle monarchie assolute di Austria, Russia e Prussia, alla Prima Coalizione contro la Francia, che reagì dichiarando loro guerra. Fu un periodo particolarmente critico per il governo rivoluzionario francese che contemporaneamente doveva difendersi dai nemici interni e da quelli esterni.
L’esercito francese dovette affrontare gli Spagnoli nella cosiddetta “Guerra del Rossiglione” [15] combattuta sui Pirenei orientali, e in parte anche sul mare.

Allo scoppio della guerra contro la Francia, Gravina fu immediatamente richiamato, e dovette lasciare l’Inghilterra per tornare in Spagna, all’inizio del 1793. Non appena arrivato, gli fu subito assegnato il comando di quattro vascelli. Gravina issò la sua insegna sull’Ermenegildo, una nave da 112 cannoni che armò e attrezzò così bene da guadagnarsi non solo l’ammirazione degli inglesi, ma anche un decreto reale che stabiliva che quella nave dovesse servire da modello per tutti gli altri armamenti.
Gravina partì da El Ferrol con la sua divisione e si diresse nel Mediterraneo, dove si unì alla squadra di Don Juan de Làngara che pattugliava il golfo di Roses.
Rimasero lì fino al 26 agosto, quando arrivò una fregata della squadra dell’ammiraglio Hood (che si trovava al largo delle coste francesi) con un messaggio urgente: richiedeva sei vascelli ausiliari per prendere possesso del porto e degli arsenali di Tolone. L’assedio durerà quattro mesi circa, dal settembre al dicembre del 1793.
In quella città regnava il caos, provocato dalla contrapposizione violenta tra le opposte fazioni dei Giacobini da una parte e dei lealisti monarchici, solidali con i Girondini, dall’altra. Si erano verificati, disordini, scontri, tafferugli per strada, con feriti e morti da ambo le parti. Alla fine, era prevalsa la fazione realista che, intimorita dall’arrivo dell’armata del generale Carteaux inviata da Parigi per sostenere la fazione giacobina, scelse di chiamare in soccorso la flotta di Inglesi, Spagnoli e Napoletani che incrociava al largo, e consegnare la città agli stranieri. Ma nel porto di Tolone era alla fonda la flotta francese comandata dall’ammiraglio Trogoff. Gli Alleati (Hood e Langara) avevano promesso aiuto a condizione che la flotta francese si dichiarasse favorevole. Trogoff si era detto d’accordo, ma il contrammiraglio Saint-Julien, fedele alla Rivoluzione, radunò gli equipaggi e fece giurare a marinai e ufficiali di non permettere mai l’ingresso di un esercito nemico in un porto della Repubblica. Saint-Julien prese il comando della squadra, e le navi si disposero in modo da sbarrare il passaggio della rada.
I Tolonesi, in una posizione sempre più critica, presero una misura estrema: dichiararono la flotta ribelle alla volontà popolare e decisero di usare la forza. Fu ordinato al comandante del Forte della Torre di preparare le batterie a palla infuocata e di aprire il fuoco sulla flotta al primo segnale, se questa non avesse ceduto, mentre gli Alleati avrebbero dovuto attaccare dal mare.

Allora, si verificò un fatto inatteso, il tenente di vascello Van Kempen, che faceva parte della flotta di Saint-Julien, disertò con la sua fregata, La Perla, a favore della fazione realista. L’ammiraglio Trogoff (favorevole agli Alleati) ne approfittò per issare la sua insegna sulla fregata, spingendo parte della flotta ad abbandonare Saint-Julien, che fu costretto a fuggire con i pochi vascelli rimasti fedeli alla Rivoluzione. Caduto l’ostacolo della flotta, gli Alleati (truppe inglesi, spagnole, sarde e napoletane) entrarono nel porto e presero immediatamente possesso di Tolone in nome di Luigi XVII, sostituendo i colori repubblicani con il bianco della monarchia.
Gravina fu nominato comandante delle armi e responsabile dell’organizzazione difensiva, ma gli Inglesi, gelosi, si assicurarono il controllo dell’arsenale e delle posizioni chiave, come le Gole d’Ollioules (il solo passaggio per l’artiglieria da Marsiglia). Nonostante la tensione e la diffidenza, Gravina lavorò per guadagnarsi la fiducia di Lord Mulgrave, il governatore inglese, e si assunse i compiti più gravosi: fortificò i posti avanzati, riparò le mura della città e si preparò a una lunga resistenza. Per un atto di umanità, fece subito liberare i prigionieri francesi repubblicani, catturati per salvarli dalla vendetta dei Tolonesi.

Due mesi dopo l’arrivo degli Alleati, Gravina aveva notevolmente potenziato le difese (in particolare i forti di Balaguier e L’Eguillette) e occupato l’intera catena di forti che circondava Tolone. Per cacciare i Repubblicani dal Monte Faron e Capo Bruno, Gravina lanciò una sortita in tre colonne. Nonostante una ferita alla gamba destra, guidò i suoi uomini all’assalto. L’attacco fu un successo: i Francesi furono respinti e furono catturati circa trecento prigionieri. Gravina fu accolto in trionfo dalla popolazione.
La situazione di comando si complicò quando il governo inglese nominò il generale O’Hara come governatore di Tolone, creando attriti con Gravina. La vittoria anglo spagnola non fu tuttavia definitiva, perché poco dopo il generale Dugommier, che era accorso con i rinforzi a sostegno del generale Carteaux, divideva il suo esercito per attaccare su due fronti. I Repubblicani schierarono nuove batterie, posizionate vantaggiosamente dal giovane capo di battaglione Bonaparte, comandante in seconda dell’artiglieria.

Dal canto suo, Gravina guidò una grande sortita (5-6.000 uomini) per distruggere le postazioni repubblicane. Sebbene inizialmente vittoriosi (catturarono e inchiodarono i cannoni di una batteria), furono presto travolti dalla controffensiva guidata personalmente da Dugommier. Gli Alleati ripiegarono in disordine, e in questa azione fu catturato lo stesso Generale O’Hara. La sconfitta seminò il panico a Tolone. Il generale Dundas subentrò a O’Hara, stabilendo un rapporto più armonioso con Gravina.
Gli Alleati mantenevano ancora il controllo di una posizione strategicamente fondamentale: la fortezza situata sul monte Faron, un’altura che domina la città di Tolone e affaccia sul villaggio di La Seyne. Questa postazione, per la sua conformazione naturale e le difese artificiali – tra cui palizzate, fossati e abbattimenti di alberi – era nota con il soprannome di “Piccola Gibilterra”.
La guarnigione contava circa 500 uomini e disponeva di 36 cannoni, il che rendeva la fortezza particolarmente difficile da espugnare.

Un ruolo determinante nella vittoria francese fu svolto dal giovane comandante d’artiglieria Napoleone Bonaparte, che si distinse per l’efficace disposizione delle batterie, atte a garantire la massima copertura di fuoco contro le postazioni nemiche. La sua competenza tecnica e la lucidità tattica dimostrate durante l’assedio gli valsero la promozione a generale di brigata direttamente sul campo di battaglia. Il giorno dopo, il generale Gravina propose di riconquistare il Faron, ma gli altri comandanti rifiutarono, preoccupati per i forti ora in mano francese che minacciavano il porto (Malbousquet, Balaguier, Eguillette). Decisero per l’immediata evacuazione della piazzaforte.

L’attacco francese, condotto dal generale Dugommier, fu organizzato su due direttrici principali. Durante una notte di combattimenti intensi, caratterizzati da assalti, contrattacchi, ritirate e successivi tentativi di avanzata, si svilupparono violenti scontri corpo a corpo su entrambi i fronti. Alla fine, nonostante l’accanita resistenza e il coraggio dimostrato, le forze inglesi furono costrette alla resa a causa dell’esaurimento delle risorse e delle perdite subite. La popolazione di Tolone, priva della protezione degli Alleati, temendo rappresaglie da parte dei Francesi, fu presa dal panico e si riversò al porto per implorare gli ufficiali di essere imbarcata sulle navi alleate. La calca sul molo fu tale che un pontile galleggiante sprofondò, causando la morte per annegamento di molte persone. Il comandante spagnolo Gravina cercò di ristabilire l’ordine fra la popolazione impaurita e in preda al panico. Ordinò l’uscita di pattuglie di dragoni a cavallo con l’intento di sedare i disordini senza causare danni. Tuttavia, la vista della cavalleria fece fuggire precipitosamente la folla, che abbandonò gli oggetti di valore raccolti sul molo.
Gravina, rimasto calmo nel mezzo della confusione, si adoperò per garantire la sicurezza nelle strade tramite pattugliamenti regolari, radunare le truppe che presidiavano i forti, e procedere con l’imbarco di feriti e malati. Organizzò infine la ritirata ordinata verso la fortezza di Lamalgue. Tuttavia, l’impazienza degli alleati inglesi di distruggere la flotta francese spinse questi ultimi ad anticipare l’incendio dell’arsenale, scatenando nuovamente il panico tra la popolazione civile, che temette un’imminente invasione nemica. La ritirata, che doveva avvenire in modo ordinato dalla porta d’Italia, si trasformò in una fuga caotica attraverso una via secondaria. Nonostante questo, l’intera colonna raggiunse Lamalgue, con Gravina che occupò la retroguardia, la posizione più pericolosa.
Nel frattempo, circa dodicimila Tolonesi, temendo rappresaglie e violenze, cercarono di imbarcarsi nei pressi dei forti, portando con sé ciò che restava dei propri averi. Molti di loro erano già reduci da persecuzioni a Lione, Marsiglia e in altre città.
La vista delle fiamme che avvolgevano parte della città scatenò l’indignazione nell’esercito repubblicano francese. I soldati chiesero di lanciarsi all’attacco per impedire l’imbarco degli alleati e dei fuggitivi, ma era ormai troppo tardi. I cannoni riuscirono a colpire solo alcune delle ultime imbarcazioni.
La flotta alleata riuscì a mettersi in salvo, dirigendosi verso le isole di Hyères nonostante le condizioni meteo avverse. Dopo aver subito una tempesta che danneggiò diverse navi, salpò alla volta di Cartagena, portando con sé un gran numero di profughi. Il comportamento del comandante Gravina, riconosciuto come determinante per la riuscita della ritirata, fu pubblicamente elogiato sia dagli inglesi sia dalla stampa britannica. L’ammiraglio Hood, attraverso il generale Parker, espresse gratitudine per i servizi resi, mentre il cavaliere Eliot gli scrisse una lettera in cui affermava che la salvezza dell’intero esercito e della flotta alleata era merito suo. Se non fosse stato per la sua pronta azione, infatti, l’intero contingente alleato sarebbe caduto in mano ai Francesi.

Gravina, promosso a Viceammiraglio per il valore dimostrato, si ritirò a Murcia per curare le ferite, ma, ancora convalescente, riprese presto il servizio attivo, imbarcandosi nuovamente per guidare operazioni militari. La figura di Federico Gravina che emerge da questo episodio è quella di un comandante dotato di notevoli qualità militari, umane e strategiche, capace di agire con sangue freddo e determinazione anche in condizioni estreme. Durante l’assedio e la caduta di Tolone, Gravina dimostrò non solo un alto senso del
dovere, ma anche una rara lucidità nel coordinare una ritirata complessa, salvando truppe, feriti e civili in un contesto di caos e panico. La sua decisione di assumersi la responsabilità della retroguardia, la parte più pericolosa della ritirata, testimonia il suo coraggio personale e la dedizione al comando. Particolarmente significativo è anche il riconoscimento internazionale che ricevette: le lodi esplicite dell’ammiraglio inglese Hood e del cavaliere Eliot mostrano quanto il suo contributo sia stato apprezzato anche al di fuori della Spagna. Gravina non si limitò a difendere interessi nazionali, ma si rivelò una figura chiave nella cooperazione tra alleati in un momento critico della guerra contro la Francia rivoluzionaria. La sua rapida ripresa dall’infortunio e il ritorno in mare dimostrano un forte senso di responsabilità e un attaccamento non comune alla marina militare. Per la sua condotta, Gravina incarna l’immagine del militare intelligente, capace di operare con efficacia nei momenti critici, e di guadagnarsi il rispetto tanto dei nemici quanto degli alleati.
La guerra del Rossiglione
Mentre la flotta anglo-spagnola operava a Tolone a sostegno dei realisti francesi, la Repubblica francese aveva attaccato la Spagna, il 7 marzo del 1793, attraverso la frontiera catalana nella zona del Rossiglione. Le forze spagnole avevano inflitto varie sconfitte all’esercito francese e avevano catturato diverse fortezze di confine, ma avevano dovuto poi retrocedere essendo rimaste prive di rifornimenti. L’ammiraglio Gravina viene coinvolto anche in questo scenario di guerra.
Dopo essersi ristabilito dalle ferite riportate durante la campagna di Tolone, l’ammiraglio riprese il comando della flotta e, nel maggio del 1794, salpò da Cartagena con una squadra navale per soccorrere le piazze di Collioure e Port-Vendres, sulla costa mediterranea dei Pirenei, assediate dai francesi. Tuttavia, all’arrivo, constatò che entrambe le fortezze erano già cadute in mano nemica, in seguito alla capitolazione dell’ala destra dell’esercito spagnolo comandata dal generale Navarro.
A causa di questi sviluppi, la squadra si ritirò verso Roses, dove Gravina collaborò con il conte dell’Unione, comandante delle truppe di terra, per ispezionare e rafforzare i punti marittimi della costa. In seguito, predispose missioni navali efficaci per difendere la costa, garantendo per tutta la stagione una relativa sicurezza navale.
L’autunno segnò un nuovo momento critico: il 17 e 20 novembre 1794, entrambi i comandanti delle armate contrapposte, Dugommier e il conte dell’Unione, morirono in battaglia. Priva di direzione, l’ala destra spagnola cedette e le truppe, prese dal panico, si ritirarono precipitosamente verso Roses. Molti soldati cercarono rifugio disperato sulle navi, credendo che fosse l’unica via di salvezza. Tuttavia, grazie all’intervento deciso di alcuni ufficiali, si riuscì a ristabilire l’ordine e a reintegrare i soldati nei rispettivi reparti.
Gravina, valutata la situazione, decise di ridurre la guarnigione di Roses al minimo necessario per la difesa, imbarcando il resto delle truppe per inviarle a Palamós, affinché si ricongiungessero con l’esercito del marchese di Amarrillas, attestato a Gerona.

Poco dopo la caduta di Figueras, i francesi si presentarono alle porte di Roses proponendo la resa, sostenendo che la Convenzione Nazionale francese aveva decretato il rifiuto di fare prigionieri a qualsiasi guarnigione spagnola che avesse resistito oltre il primo assalto. Nonostante le minacce e i precedenti di altre piazze cedute, Gravina, con il comandante della piazza Domenico Izquierdo, rifiutò ogni trattativa. Gravina rafforzò la guarnigione, fece sbarcare 100 artiglieri con viveri e munizioni sufficienti per quattro mesi, e pose metà delle truppe di marina a presidio del castello della Trinità. Le sue misure difensive impedirono ai francesi di prendere posizione presso il monte, e furono condotte diverse sortite efficaci contro gli assedianti.
Ma le artiglierie francesi erano preponderanti e potevano colpire da postazioni molto favorevoli, così dopo un bombardamento massiccio, mura e bastioni furono distrutti e l’unica scelta per gli spagnoli era la ritirata, che Gravina decise di compiere di notte. Organizzò il reimbarco in tre linee: le barche leggere presso la riva per l’imbarco rapido, seguite da sciabecchi e brigantini per il trasporto verso le navi. Prese ogni precauzione, incluse lance armate ai fianchi, per proteggere la ritirata da eventuali attacchi nemici.
Nonostante la resa finale, la difesa di Roses fu di enorme importanza strategica: bloccò l’avanzata francese per oltre due mesi, offrendo il tempo necessario alla riorganizzazione dell’esercito spagnolo. Le truppe evacuate da Roses poterono infatti essere reintegrate rapidamente e con efficacia nelle operazioni successive.
Le gesta di Gravina furono oggetto di ampi elogi nella stampa del tempo e nelle relazioni ufficiali. Il generale José Urrutia, in un rapporto del 14 febbraio 1795 al ministro della Marina Antonio Valdés, espresse la sua profonda ammirazione per l’intrepido coraggio di Gravina, ritenuto il principale artefice della resistenza e della tenuta morale della guarnigione. Il re volle premiare Gravina per i servigi resi, onorandolo con la “chiave di gentiluomo di camera in esercizio” [16] e destinandolo a divenire Generale in Capo della Squadra Navale, per l’assenza di D. Juan Làngara. La guerra del Rossiglione tra Francia e Spagna, si concluse nel 1795 con la vittoria delle forze francesi e il consolidamento del controllo francese sulla regione. La pace stipulata a Basilea il 22 luglio pose fine alla serie di scontri e assedi, con cui i francesi erano riusciti a respingere le truppe spagnole ottenendo il controllo del Rossiglione, una regione strategicamente importante nel nord-est della Spagna. [17]
Bombardamento di Cadice
Tornata la calma, Gravina poté concedersi un periodo di riposo e convalescenza a Valenza. Nel frattempo, però, cambiano gli equilibri internazionali. Francia e Spagna hanno entrambe la necessità di arginare l’espansionismo britannico sia nei porti europei sia nelle colonie d’oltreoceano, su questa comune base di interessi siglano, il 19 agosto del 1796, il Secondo trattato di San Ildefonso, un trattato offensivo difensivo contro la Gran Bretagna che si vede privata delle sue basi navali nel mediterraneo. Oltrepassare lo stretto di Gibilterra significa affrontare la flotta spagnola che ne sorveglia i transiti. Un primo scontro avviene al largo di Capo San Vincenzo, di fronte alla costa meridionale del Portogallo, il 14 febbraio, la flotta spagnola subisce una grave disfatta sebbene fosse numericamente superiore a quella britannica.

Uno degli ammiragli della Royal Navy era Horatio Nelson che in quell’occasione si distinse per le imprevedibili manovre con cui riuscì ad attaccare le tre enormi navi alla testa della divisione spagnola. Parte dei vascelli spagnoli si misero in salvo veleggiando verso Cadice.
Era il 1797, quando Gravina riprese servizio attivo dopo il periodo di permanenza a Valenza.
Al suo rientro, fu chiamato al comando della Squadra dell’Oceano. Gravina, con notevole modestia, preferì cedere la posizione di comandante in capo a un altro generale, ritenuto più esperto di lui in tattica navale, accettando volentieri l’incarico di generale di grado inferiore. L’anno successivo, nel 1798, gli Inglesi progettarono il bombardamento di Cadice, preparando a Gibilterra un’imponente e inedita bombardiera, ironicamente soprannominata dagli spagnoli il “Bombo”. Questa nave di straordinaria grandezza era armata con numerosi mortai centrali e ventiquattro cannoni di grosso calibro per contrastare qualsiasi attacco ravvicinato.
Di fronte a tale minaccia, l’ammiraglio José de Mazarredo, comandante in capo, affidò a Gravina il comando operativo delle forze di difesa, che includevano lance cannoniere e barcacce dei vascelli opportunamente armate con cannoni da 24 libbre.
Nella notte del 3 luglio, il “Bombo” giunse a Cadice, causando danni e allarme tra la popolazione. Gravina guidò immediatamente le lance cannoniere in un audace scontro a fuoco ravvicinato contro le unità nemiche, comandate da Nelson, costringendo il “Bombo” a interrompere il bombardamento. L’azione fu ripetuta il 5 luglio con Gravina che, agendo con “massimo sangue freddo” e fermezza su ordine del generale in capo, respinse i ripetuti attacchi inglesi, obbligandoli infine a una ritirata verso Gibilterra, sventando il piano d’attacco.
Missione nei Caraibi: la strategia navale di Gravina
Successivamente, la squadra si spostò a Cartagena e poi a Brest, unendosi alla flotta francese guidata da Bruix. Gravina, tornato al comando della squadra spagnola, contribuì in modo significativo all’organizzazione difensiva, che prevedeva la costruzione di batterie costiere e l’ottimale posizionamento di vascelli e lance cannoniere per prevenire un possibile sbarco inglese.
Nel marzo 1801, Napoleone, divenuto Primo Console a seguito del colpo di stato del 1799, per consolidare i legami con la Spagna stipulò con il sovrano Carlo IV il Trattato di Aranjuez, nel quale da

una parte si ribadivano le clausole del precedente Trattato di San Ildefonso e dall’altra la Spagna si impegnava a restituire New Orleans e la Luisiana in cambio del Granducato di Toscana.
Il rinnovato patto d’alleanza implicava che navi spagnole rafforzassero la squadra francese dislocata nei Caraibi, pertanto, nel dicembre 1801, Gravina venne incaricato di salpare con quattro vascelli per dirigersi a Santo Domingo.
Un inconveniente tecnico al suo vascello, il Nettuno, lo costrinse a una sosta di riparazione di quattordici giorni nell’arsenale del Ferrol, sulla costa atlantica a nord della Spagna. Ripresa la navigazione, e collaborando strettamente con il comandante del vascello D. Gaetano Valdes per gestire al meglio le vele in relazione ai venti stagionali, Gravina adottò una rotta inusuale, giungendo a Samaná a Santo Domingo con ben 24 ore di anticipo rispetto al resto della squadra. Tornò a Cadice nel maggio 1802, carico di beni e denaro governativi, e fu poi ricevuto a Madrid, dove il Re lo onorò con la fascia della Gran Croce dell’Ordine di Carlo III come ricompensa per il suo “chiarissimo merito”.
L’ambasciata a Parigi e la Campagna del 1805
L’anno seguente, tuttavia, ripresero le ostilità in quanto la Francia dichiarò guerra alla Gran Bretagna, il 12 maggio 1803, accusandola di aver violato gli accordi di Amiens.
Nel giugno 1804, Gravina fu nominato ambasciatore alla corte di Francia. Accettò l’incarico a condizione di poter riprendere immediatamente la carriera navale attiva in caso di nuove mobilitazioni. A Parigi, si dedicò alla negoziazione degli interessi spagnoli con grande sollecitudine e onestà, guadagnandosi la stima generale, e in particolare quella dell’Imperatore Napoleone.
Quest’ultimo, in segno di rispetto per i suoi talenti e virtù, non solo lo consultava sui suoi progetti, ma gli fece dono di oggetti preziosi, tra cui una spada e una tabacchiera con il proprio ritratto. L’influenza di Gravina fu tale da consentire la liberazione del capitano inglese Wright, un favore che era stato negato a coloro che avevano già tentato in precedenza.
Essendo riprese le ostilità con l’Inghilterra, Gravina lasciò l’ambasciata e si recò a Cadice per assumere il comando della squadra spagnola, inalberando la sua insegna sul vascello da 80 cannoni Argonauta il 15 febbraio 1805.
La Flotta Combinata e la rotta per le Antille
Questo fu l’anno in cui la Francia manifestò la sua massima volontà di invasione dell’Inghilterra. Il piano di Napoleone prevedeva di distrarre la Marina Britannica inviando le flotte francesi e spagnole nell’Atlantico e nei Caraibi, per poi farle rientrare rapidamente e unirle nel Canale della Manica, sferrando l’attacco decisivo. In base a questo piano, la flotta francese di Tolone, al comando del viceammiraglio Villeneuve, salpò per liberare Cadice dal blocco e unirsi alle navi spagnole. Il 9 aprile, i Francesi erano in vista di Cadice. Il 10, la manovra della squadra spagnola, sotto il comando di Gravina a bordo dell’Argonauta, per lasciare il porto e unirsi a Villeneuve, fu eseguita con tale maestria che l’ammiraglio francese la lodò definendola “equivalente a una vittoria”.
La flotta combinata, forte di quattordici vascelli di linea, sei fregate e altri vascelli minori, fece rotta verso le Antille, seguendo le istruzioni di Villeneuve che miravano a evitare lo scontro diretto con il nemico a meno che non fosse strettamente necessario.
Egli esortava i suoi capitani a mostrare coraggio, a non temere gli Inglesi e a fare affidamento sulla propria iniziativa nel combattimento.

Il 14 maggio, la flotta giunse alla Martinica, dove Gravina si riunì ad altri cinque vascelli spagnoli della sua squadra. Durante la sosta di tre settimane, la flotta si rafforzò e intraprese con successo l’attacco e la conquista della Rocca del Diamante, [18] una fortezza inglese divenuta base per le crociere britanniche. I marinai spagnoli e francesi si distinsero per audacia; la prima imbarcazione a raggiungere la riva fu proprio la lancia dell’ammiraglio Gravina. Dopo essersi rifornita di truppe a Guadalupe, la flotta riprese il mare, catturando un convoglio mercantile inglese. Il 9 giugno, la notizia dell’arrivo di Nelson a Barbados (nelle Antille) spinse i comandanti a interrompere ulteriori operazioni nelle Antille e a fare rotta per l’Europa, in ottemperanza al piano napoleonico di approfittare della lontananza della flotta britannica pe fare irruzione nella Manica e invadere la Gran Bretagna.
Lo scontro navale di Finisterre (22 Luglio 1805)

Il 22 luglio, al largo di Capo Finisterre, (lungo la costa del nord della Spagna) la flotta combinata, proveniente dalle Antille, si imbatté nella squadra inglese di quindici vascelli al comando del viceammiraglio Sir Robert Calder, preannunciando un nuovo, decisivo scontro navale.
Era una giornata di nebbia intensa, che ostacolò gravemente la reciproca visibilità e le manovre. In tali condizioni le navi potevano distinguere solo le proprie compagne più prossime.
La foschia non impedì a entrambe le parti di prepararsi al combattimento, e le navi furono schierate su linee di convoglio [19] che si fronteggiavano. Secondo una consueta tattica navale, da una parte erano allineate le navi spagnole comandate dall’ammiraglio Gravina, e quelle francesi guidate dall’ammiraglio Villeneuve. Dall’altra si mise in posizione la flotta britannica di Calder.
Il combattimento, benché condotto a una distanza considerevole, divenne più intenso nel pomeriggio, ma la nebbia impediva una chiara visione degli effetti generali. Nonostante le difficoltà, il fuoco franco-spagnolo si dimostrò superiore a quello nemico in diversi settori. Un vascello inglese a tre ponti, spintosi troppo vicino alla linea alleata, fu gravemente danneggiato da un vascello francese. Tuttavia, la flotta spagnola correva il rischio maggiore perché si trovava sopravento e le navi disalberate, a causa della nebbia, potevano scivolare alla deriva verso la linea nemica.
Al sopraggiungere della sera, l’oscurità e la nebbia portarono alla graduale cessazione del combattimento, e quando si contarono le perdite alla flotta combinata mancavano due vascelli spagnoli, il Firme e il San Raffaele.

Durante la notte, le navi franco-spagnole si mantennero unite, pronte a uno scontro decisivo il giorno successivo, con gli equipaggi e le truppe animate da uno spirito combattivo. All’alba del 23 luglio, il cielo si schiarì, rivelando la squadra inglese in fuga disordinata, e diversi vascelli nemici gravemente danneggiati e costretti al rimorchio. L’esito dello scontro non piacque all’ammiraglio Villeneuve, che diresse la flotta all’inseguimento della squadra fuggitiva per non lasciarsi sfuggire l’occasione di ingaggiare una battaglia decisiva. Ordinò all’ammiraglio Gravina e a tutti i comandanti dei vascelli l’imperativo di serrare al massimo il fuoco sul nemico.
L’ordine, trasmesso tramite portavoce e accolto con grande entusiasmo dagli equipaggi, sembrò preannunciare un successo.
La flotta combinata iniziò l’inseguimento della squadra inglese, ma il vento debole rallentò la caccia e Villeneuve, comunicò alla flotta l’intenzione di attaccare solo l’indomani. Durante la notte cambiò l’intensità del vento notturno, la flotta inglese si trovò sopravento acquistò velocità e divenne più difficile raggiungerla. Nonostante un tentativo di continuare l’inseguimento, Villeneuve preferì, infine, desistere e fece rotta verso Vigo, dove giunse il 27 luglio.
Sebbene il combattimento non fosse stato decisivo per nessuno dei due schieramenti, per un verso gli alleati avevano lasciato la flotta inglese in una condizione di disorganizzazione e vulnerabilità, e per l’altro gli Inglesi avevano sventato per il momento il tentativo napoleonico di invadere l’Inghilterra. Forse se Villeneuve fosse stato meno prudente e più tempestivo l’esito sarebbe stato diverso, probabilmente favorevole ai franco-ispanici.
Preparativi in vista dello scontro decisivo

Dopo soli quattro giorni a Vigo, necessari per sbarcare i feriti e rifornirsi d’acqua, Villeneuve ripartì con una forza di tredici vascelli francesi, dodici spagnoli, sette fregate e due brigantini. Il 2 agosto, la flotta, veleggiando verso nord, giunse alle rade di El Ferrol e La Coruña. Rinforzatosi di quindici vascelli tra francesi e spagnoli, il 12 agosto l’ammiraglio fece vela verso sud, per Cadice, dove arrivò il 21 dello stesso mese. Davanti a Cadice trovò una squadra di navi Inglesi, comandate dall’ammiraglio Collingwood, intente a pattugliare il porto. L’ammiraglio francese avrebbe potuto tagliar la ritirata alla squadra inglese e distruggerla ma non conoscendo il numero dei vascelli inglesi e temendo che nei dintorni si trovasse anche la squadra di Nelson, da uomo prudente qual era, preferì evitare uno scontro. Entrò a Cadice e si dedicò ad armare quattro vascelli spagnoli. Completò gli equipaggi senza selezionare attentamente le reclute, sottovalutando il fatto che erano elementi sprovveduti, poco avvezzi alla disciplina e privi della necessaria abilità marinaresca. Al completo dei rinforzi, la flotta combinata contava in totale trentatré vascelli di linea e rimase inattiva a Cadice per due mesi interi. Nel frattempo, l’Ammiragliato inglese si prodigò per rafforzare Collingwood, ordinando lo spostamento di navi da Brest [20] e preparando con grande alacrità i vascelli di Nelson e Calder. Il comando dell’intera flotta fu offerto a Lord Nelson, che accettò con entusiasmo e salpò sulla Victory. Adottando misure per nascondere la reale consistenza delle sue forze, quindi, veleggiando lontano dalla costa e facendo arrivare i vascelli isolatamente, Nelson giunse al largo di Cadice il 29 settembre, disponendo infine di ventisette vascelli.
Le forze in campo e la decisione di Villeneuve

Intorno al 15 ottobre 1805, le forze erano bilanciate: la flotta combinata contava diciotto vascelli francesi e quindici spagnoli (totale 33), mentre quella inglese ventisette vascelli. La superiorità numerica di sei unità degli alleati era compensata dagli inglesi dal maggior numero di vascelli a tre ponti e, soprattutto, dall’unità di comando e dall’omogeneità degli equipaggi, assenti nella flotta combinata.
Irritato dalle critiche di Napoleone, che lo aveva quasi accusato di tradimento per non aver proseguito verso Brest e per la ritirata a Cadice, e certo di essere presto rimpiazzato dall’ammiraglio Rosily, Villeneuve si risolse a prendere il mare per forzare lo stretto di Gibilterra e dirigersi a Tolone, contro il fermo parere di Gravina. Villeneuve stimava che il nemico disponesse solo di ventuno vascelli, e riteneva che l’unica via per riabilitarsi fosse quella di riportare un successo contro Nelson.
La tattica del combattimento
La flotta combinata iniziò la sortita da Cadice il 19 ottobre. Raggiunta la zona di mare antistante Capo Trafalgar, furono avvistate le fregate inglesi. l’ammiraglio fece formare l’ordine di marcia su tre colonne, navigando a S.O.
Durante la notte, la velocità della flotta franco spagnola rallentò. Dai segnali e dai fuochi delle navi inglesi si capì quanto i nemici si fossero avvicinati, pertanto, Villeneuve ordinò di formare la linea di battaglia senza riguardo per il posto, e di prepararsi al combattimento. All’alba del 21 ottobre, il nemico comparve sopravento, con oltre trenta vele. Villeneuve ordinò di formare l’ordine di battaglia naturale, con le mure a dritta [21], disponendo tutte le navi della flotta in una singola, lunga colonna, la “linea di battaglia”, dirigendole a navigare in direzione Sud-Ovest.
Questa formazione, con le due divisioni di riserva in avanti, era quella prevista per affrontare un nemico sopravento e in forze quasi pari. Poco dopo, riconosciuta la forza nemica in ventisette vascelli, l’ammiraglio ordinò di virare di poppa contemporaneamente, invertendo l’ordine di battaglia e dirigendosi a Nord. Questa manovra mirava a non allontanarsi troppo da Cadice e a mantenersi nei pressi del porto per un possibile rifugio, ma la scarsità del vento e l’ulteriore segnale di stringere il vento da parte di Villeneuve ostacolarono la corretta formazione della linea, lasciando i vascelli più arretrati fuori posizione.
La flotta inglese, al contrario, si avvicinava in due colonne, dirigendosi verso il centro della linea franco-spagnola. Questa insolita formazione, scelta da Nelson per evitare i ritardi nella formazione in linea di battaglia e dettagliata in un ordine generale ai suoi capitani, si poneva in netto contrasto con la disposizione del nemico.

Il Memorandum di Nelson

Prevedendo lo scontro navale con la flotta alleata franco spagnola, l’ammiraglio Nelson, a bordo della H.M.S. Victory, [22] aveva predisposto un piano d’attacco, un “Memorandum”, che rappresenta una vera e propria rivoluzione tattica, in quanto non segue la consuetudine ma introduce una disposizione operativa di attacco del tutto innovativa e soprattutto inaspettata dagli avversari:
“Ritenendo sia quasi impossibile condurre una flotta di quaranta navi di linea in una singola linea di battaglia con venti variabili, tempo fosco e con tutte le altre circostanze che possono verificarsi, senza un dispendio di tempo tale che andrebbe probabilmente perduta l’occasione di ingaggiare a battaglia il nemico in modo da rendere lo scontro decisivo, ho pertanto deciso di mantenere la flotta in quell’ordine di navigazione (con l’eccezione del Primo e del Secondo in Comando) per cui l’ordine di navigazione corrisponda all’ordine di battaglia, schierando pertanto la flotta in due linee [di fila] di sedici navi ciascuna, con una Squadra Avanzata [per ciascuna linea] di otto dei vascelli a due ponti più veloci che potranno sempre, se necessario, costituire una linea di ventiquattro vele lungo qualsiasi direttrice il Comandante in Capo potrà dirigerli…..”
Nelson di seguito prefigurava una serie di eventualità e dava disposizioni precise sulle manovre da eseguire, affidando a ciascuno la responsabilità di attuarle senza aspettare di ricevere ordini. Infine, conferiva al comandante in secondo, Vice-Ammiraglio Collingwood, la direzione assoluta della sua colonna una volta che le intenzioni fossero state comunicate, autorizzandolo ad attaccare e a proseguire fino alla distruzione o cattura dei vascelli nemici. Nelson, quindi, abbandonò la tradizionale linea di battaglia parallela, per adottare una formazione d’attacco imperniata su due colonne principali di sedici vascelli ciascuna, affiancate da una squadra avanzata di otto vascelli a due ponti. L’intento primario non era lo scontro frontale lungo tutta la linea nemica, ma una concentrazione di forza su un settore specifico per isolare e distruggere la retroguardia e il centro della flotta avversaria.

Il piano mirava a concentrare la flotta britannica contro circa i due terzi della linea nemica, dal centro alla coda, superando in numero gli avversari in quel settore. Il vantaggio atteso era che l’avanguardia nemica, intatta, non sarebbe stata in grado di manovrare in tempo utile per soccorrere i compagni in difficoltà, offrendo poi alla flotta britannica l’opportunità di riceverla o inseguirla. L’eccezionalità del piano era rafforzata dalla dottrina di combattimento individuale: in caso di incomprensione o incapacità di vedere i segnali, il singolo capitano non avrebbe commesso errore nell’azione più diretta e aggressiva, ovvero “situare il suo vascello pel traverso d’ un vascello nemico”. Questo delegare l’iniziativa, unito all’imperativo di mantenere un ordine serrato, rifletteva una fiducia nella capacità e nell’aggressività dei singoli comandanti britannici. Prima dell’attacco, Nelson fece comunicare alle sue navi il celebre messaggio:
“L’ Inghilterra conta che ciascuno farà il suo dovere!“. Questa esortazione galvanizzò gli equipaggi britannici, che si gettarono nel combattimento nell’entusiasmo generale.
Il Piano di Villeneuve
“Il nemico è perduto se riusciamo a raggiungerlo.” queste le parole con cui Nelson aveva concluso il suo discorso di presentazione del piano d’attacco ai generali e capitani della sua flotta. Nelson era molto sicuro di sé ed era certo di battere il nemico.

“Anche nel campo avversario si stavano preparando alla battaglia: regnava la stessa attività, la stessa abnegazione, ma non la stessa fiducia. Gravina, “completo in tutto, anche nella buona volontà”, per usare l’espressione del generale Beurnonville, si dichiarò pronto a partire, rianimò il suo squadrone devastato come meglio poté e condivise segretamente i fondati timori dell’ammiraglio Villeneuve. Quest’ultimo, l’ufficiale più esperto, il più abile tattico, checché se ne dicesse. Ma non lo spirito più saldo posseduto a quel tempo nella marina francese, prevedeva con disperazione i piani del suo abile avversario. “Non si limiterà”, disse ai suoi ufficiali, “a formare una linea di battaglia parallela alla nostra e a venire a ingaggiare una battaglia di artiglieria […] Cercherà di circondare la nostra retroguardia, di attraversarci, di portare quelle delle nostre navi che ha separato dai suoi squadroni per circondarli e ridurli.” Per contrastare questa tattica insolita con una simile, pensò quindi di presentare in linea solo un numero di navi pari a quello delle navi inglesi. Il resto della flotta sarebbe passato sotto il comando di Gravina e avrebbe formato un corpo di riserva destinato a volare in aiuto delle navi compromesse. Questo piano era stato elaborato quando il nemico aveva solo 21 navi al largo di Cadice. Era diventato impraticabile da quando Nelson aveva ricevuto rinforzi. Non bastava ideare nuovi ordini di marcia e di battaglia, preparare rapidi concentramenti e conversioni inaspettate: soprattutto, le navi dovevano essere pronte a eseguire questi difficili movimenti. Le manovre navali sono per loro natura troppo delicate per essere alla portata di un esercito che non ha avuto il tempo di riorganizzarsi.” [23]
Le istruzioni impartite dal comandante della flotta congiunta franco-spagnola, l’Ammiraglio Villeneuve, erano di un tenore ben diverso da quello sicuro e deciso di Nelson: l’obiettivo massimo era quello di affiancare i vascelli nemici per colpirli e distruggerli. A Gravina era stato assegnato un ruolo di secondo piano, quello di stare in retroguardia e intervenire in soccorso delle altre navi in caso di pericolo.
Sembrava che la flotta alleata avvertisse in anticipo il sapore della disfatta, pur non di meno a bordo delle navi tutti erano animati da ardente spirito patriottico,
La battaglia nei pressi di Capo Trafalgar (21 ottobre 1805)
Lo scontro principale riguardò senza dubbio la Francia di Napoleone Bonaparte e l’Inghilterra. Entrambe si contendevano il controllo dei mari, ma l’Inghilterra aveva un motivo in più: scongiurare l’invasione francese del proprio territorio. La Spagna partecipò con un ruolo quasi di secondo piano, si era fatta coinvolgere in quanto alleata della Francia ma anche per difendere i propri interessi coloniali dalla minaccia inglese.

L’azione si sviluppò con una drammatica disuguaglianza di forze e impegno. L’avanguardia della flotta combinata franco-spagnola rimase a lungo inerte e quattro vascelli del centro sostennero debolmente l’attacco nemico; anche la retroguardia non fu in grado di contrattaccare con efficacia, sebbene numericamente superiore, la colonna di Collingwood che colpiva con accanimento. La sconfitta della flotta congiunta franco-spagnola costrinse Napoleone a rinunciare definitivamente a invadere la Gran Bretagna.
La flotta spagnola, comandata dall’Ammiraglio Federico Gravina, costituiva quasi la metà della forza alleata, inclusa la più grande nave da guerra dell’epoca, la Santísima Trinidad, ma non era in una posizione di parità con quella francese: la marina spagnola aveva una posizione subalterna per quanto riguardava la strategia complessiva che era decisa dal viceammiraglio francese Villeneuve, il quale aveva stabilito che l’ammiraglio Gravina, comandasse la squadra di retroguardia della linea combinata e che agisse sotto le direttive francesi.
Nonostante le navi spagnole fossero considerate di buona qualità (la Spagna vantava una maggiore tradizione navale), i loro equipaggi erano spesso meno addestrati e inesperti rispetto a quelli della Royal Navy di Nelson, ed anche la flotta francese presentava lo stesso problema. Se la partecipazione spagnola fu cruciale per il numero di vascelli che portò in battaglia, la subordinazione al comando francese e la inadeguata preparazione degli equipaggi contribuirono alla schiacciante sconfitta.
Esistono diverse testimonianze dirette sulla Battaglia di Trafalgar, provenienti da ufficiali, marinai, medici di bordo e cronisti dell’epoca, sia britannici che, in misura minore, francesi e spagnoli. Queste fonti hanno permesso di ricostruire fedelmente lo svolgimento della battaglia navale.

All’inizio dell’azione la flotta combinata franco-spagnola si trovò subito in una condizione tattica decisamente svantaggiosa. La linea di battaglia risultava mal formata e lacunosa. Gravi difetti di allineamento affliggevano il centro: in alcuni tratti, come tra il Nettuno e il Bucentaure, l’ammiraglia di Villeneuve, l’eccessiva concentrazione di vascelli, in altri, ampi spazi vuoti si aprivano per l’incapacità o l’impossibilità di navi di raggiungere le loro posizioni.
In generale, molti vascelli, inclusi l’ammiraglia spagnola, Santísima Trinidad e la retroguardia, si trovavano sottovento rispetto alla linea ideale, compromettendo la loro capacità di manovra e di intervento. Le fregate e i brigantini, posizionati a grande distanza e ostacolati dalle condizioni meteorologiche, non furono in grado di svolgere la funzione di supporto e ricognizione prevista dalle istruzioni dell’ammiraglio Villeneuve.
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L’attacco delle colonne britanniche
Non appena le due colonne britanniche giunsero in prossimità del centro della linea nemica, la colonna del Vice-Ammiraglio Collingwood si diresse verso il Santa Ana, mentre quella guidata da Nelson puntò dritto sul Bucentaure dell’ammiraglio Villeneuve, come previsto dal piano nelsoniano.
Villeneuve diede il segnale di aprire il fuoco non appena la Victory arrivò a tiro, nello stesso tempo, il capitano Lucas del Formidable, constatando il pericolo imminente per il suo comandante corse a posizionarsi a ridosso e sottovento del Bucentaure. Questa manovra protesse l’ammiraglia, impedendo che la linea fosse tagliata immediatamente.
I vascelli nemici si avvicinavano presentando la prua, erano un bersaglio ideale per l’artiglieria, ma la flotta combinata ritardò l’apertura del fuoco.
Fu solo un quarto d’ora dopo mezzogiorno che il vascello spagnolo Monarca sparò il primo colpo contro il Royal Sovereign, la nave ammiraglia comandata da Collingwood, che riuscì rapidamente a tagliare la linea tra il Fougueux e il Santa Ana.

A questo punto, la colonna britannica si frammentò, con alcuni vascelli che penetrarono la retroguardia franco-spagnola in punti diversi, mentre altri si posizionarono sopravento rispetto alle navi avversarie, in una posizione ottimale per infliggere danni massicci con minima esposizione.
I vascelli britannici che non riuscirono a penetrare la linea serrarono il vento [24] per aggirare la retroguardia della linea, dove era posizionato il Príncipe de Asturias, comandato dall’ammiraglio Gravina, che si trovò circondato sotto un fuoco incrociato.
Intanto avveniva l’attacco della colonna di Nelson sul Bucentaure. La Victory subì danni significativi e perdite umane prima ancora di raggiungere la linea nemica. A causa delle avarie o di una deliberata decisione tattica, Nelson deviò dal Bucentaure per dirigersi contro il Formidable del Capitano Lucas, che mantenne la sua posizione, costringendo Nelson a virare e ad abbordare il Formidable a dritta, mentre il vascello britannico a tre ponti, Temeraire, si dirigeva a poppa dello stesso. Il Formidable, trascinato sottovento dall’abbordaggio, aprì involontariamente un varco a poppa del Bucentaure, permettendo ai vascelli di testa della colonna di Nelson di penetrare. I vascelli di coda della colonna, dopo un breve scambio di bordate con l’avanguardia nemica, si unirono alla mischia centrale, concentrando gli sforzi sul Bucentaure e la Santísima Trinidad.

Mentre le due navi ammiraglie venivano circondate, ostinatamente colpite e abbordate, ben dieci vascelli dell’avanguardia franco spagnola rimanevano immobili. L’ammiraglio Villeneuve inviò l’ordine di “virar di bordo in poppa tutti ad un tempo” per soccorrere il centro, definendo l’inerzia come una “macchia disonorante”.
Non vi fu risposta a questo appello, così il piano di Nelson poté realizzarsi più rapidamente del previsto, consentendo a dodici vascelli britannici di attaccare sette vascelli franco-spagnoli e di isolarne tre. Nonostante l’eroica resistenza, il centro della linea, inclusi il Bucentaure, l’ammiraglia di Villeneuve, e la Santísima Trinidad, furono schiacciati.
Il Bucentaure resistette per due ore sotto il fuoco incrociato, finché tutti e tre gli alberi furono abbattuti, paralizzando la maggior parte dell’artiglieria. In quel momento cruciale, le fregate, posizionate troppo lontane e sottovento, non furono in grado di rimorchiare l’ammiraglia. Villeneuve, impossibilitato a lasciare il vascello a causa della distruzione delle lance, comprese la sua totale impotenza. Vedendo il suo vascello ormai inabile a combattere e senza soccorsi, permise l’ammaina bandiera per salvare la vita del suo equipaggio, seguito poco dopo dalla Santísima Trinidad.
Dopo la battaglia, la Santísima Trinidad fu trainata dagli Inglesi verso Gibilterra, ma il suo stato precario e le avverse condizioni meteo causarono il suo affondamento prima che potesse raggiungere il porto.
Non mancarono, tuttavia, atti di eroismo. L’attacco del Formidable da parte della Victory si trasformò in un duello brutale: dopo lo scambio di bordate, il fuoco incrociato e le granate causarono un massacro sui ponti della Victory, dove Nelson stesso fu colpito a morte. Il Formidable, attaccato contemporaneamente dal Temeraire e da un terzo vascello nemico, resistette per due intere ore, subendo la caduta degli alberi e lo scoppio di un incendio. Il Capitano Lucas si arrese solo quando, di seicentoquarantatré uomini, cinquecentoventidue erano fuori combattimento.
Il ritardo e l’indecisione dell’avanguardia e la posizione sfavorevole di vascelli potenti come il Neptune segnarono il destino della flotta combinata, rendendo l’attacco di Nelson un successo schiacciante, anche se pagato al costo della sua vita.
Federico Gravina si rivelò uno dei pezzi mancanti della battaglia navale, le sue parole e i suoi consigli non furono ascoltati dall’ammiraglio francese.

Nel bilancio della battaglia di Trafalgar, la flotta combinata franco-spagnola subì perdite molto pesanti, con circa 7.000 tra morti e feriti, 18 navi catturate e 1 affondata. La flotta britannica, invece, ebbe perdite più lievi con circa 450 morti e 1.240 feriti, e nessuna nave persa. Oltre alla posizione sfavorevole rispetto alla direzione del vento e all’inattività di alcuni vascelli, un altro fattore critico per la flotta combinata fu l’abbandono di alcuni vascelli che, avendo subito solo lievi danni, decisero di allontanarsi per sottrarsi ai colpi del nemico. Ma non sfuggirono all’inseguimento dei britanni che riuscirono a raggiungerli e a metterli fuori combattimento.
Tra gli episodi di rinuncia va ricordato il francese Argonaute. Quest’ultimo, dopo aver combattuto a lungo, presentò la poppa al nemico per allontanarsi dalla mischia. L’ammiraglio Gravina, pur impegnato nel vivo del combattimento, fece inviare un ufficiale per verificarne le ragioni, scoprendo che a bordo del vascello c’erano più di duecento morti e che l’artiglieria era stata distrutta. Era questa la prova che esisteva un motivo oggettivo per non proseguire la lotta.
Nonostante i cedimenti di molti, la maggior parte degli ammiragli e dei capitani diede prova di strenuo eroismo:

Tra essi, l’ammiraglio Gravina, sul Principe de Asturias, all’estremità della linea, fu gravemente ferito da una scheggia al braccio sinistro, ma rimase al suo posto finché l’eccessiva perdita di sangue lo costrinse a passare il comando.
Il suo maggiore generale, D. Antonio Escaño, pur ferito gravemente a una gamba, continuò a dirigere il fuoco dal cassero. L’Achille (francese), privato dell’alberatura, ma ancora combattivo, si difese con lodevole tenacia contro gli attacchi successivi.
Erano trascorse circa cinque ore dall’inizio del conflitto, e l’Ammiraglio Gravina, era l’unico comandante di squadra ancora in battaglia. Egli rivolse i suoi sforzi al salvataggio dei vascelli superstiti. Dopo essere stato soccorso dal Neptune (il cui comandante Maistral, cercando un ruolo utile dopo il fallimento del centro, aveva tentato invano di radunare altri vascelli) e dal San Justo, Gravina inviò un segnale di “riunione generale e assoluta”. Egli stesso, rimorchiato dalla fregata Thémis a causa delle gravi ferite, si diresse verso Cadice, raccogliendo i vascelli che si erano allontanati o che potevano ancora manovrare.
L’unico vessillo che resistette alla furia della disfatta fu quello del Principe de Asturias, sul cui ponte di comando, adagiato sopra una lettiga, il Gravina ferito non volle abbandonare al panico la sua nave e seppe salvarla da una sicura prigionia.
Gravina riuscì a radunare diciotto unità (cinque francesi e sei spagnole, più le fregate) con le quali raggiunse la rada di Cadice, non inseguito dal nemico. Il bilancio immediato fu di diciassette vascelli della flotta combinata catturati e uno distrutto.

Il risultato complessivo fu un annientamento navale, con la Spagna che perse alti ufficiali e la Francia che vide la sua potenza marittima distrutta. Il tributo britannico fu la perdita irreparabile di Nelson, mentre il bilancio umano per la flotta combinata fu tale che l’Ammiraglio Escaño, ferito, si limitò a comunicare:
“Tutto si è perduto fuorché l’onore“.
L’ammiraglio Villeneuve fu il primo prigioniero della battaglia di Trafalgar ad essere mandato in Inghilterra. Infatti, fu subito imbarcato sulla fregata Euryalus.
La notizia del disastro di Trafalgar raggiunse l’Imperatore Napoleone in Austria, provocandogli una “furia inesprimibile”, che stemperò bruscamente la soddisfazione dei suoi trionfi terrestri.
Al suo ritorno a Parigi, Napoleone non dimenticò il suo intento punitivo verso che si era comportato da pavido o incapace ma volle anche premiare i meritevoli. I capitani Lucas e Infernet, eroi della giornata, furono onorati con il grado di Comandante della Legion d’Onore.
L’Imperatore li apostrofò con chiarezza: se tutti avessero agito come i loro vascelli, la vittoria non sarebbe stata in dubbio. Egli annunciò l’apertura di un’inchiesta sui capitani che si erano “tenuti fuori portata del cannone” anziché abbordare il nemico, promettendo di fare di loro un “memorabile esempio”. Altri ufficiali che si erano distinti, come Cosmao, furono promossi.
Riguardo agli alleati spagnoli, Napoleone espresse solidarietà al Re di Spagna per la perdita di vascelli dovuta a un “combattimento azzardato senza prudenza,” ma lodò la “grandezza d’animo” e l’attaccamento del monarca.
Le reali intenzioni dell’Imperatore verso l’Ammiraglio Villeneuve rimasero ambigue. Ritornato in Francia nell’aprile 1806, Villeneuve fu trovato morto nella sua stanza a Rennes, trafitto da numerosi colpi di coltello. L’episodio generò immediatamente interpretazioni contrastanti:
La versione diffusa da fonti inglesi (basata sul racconto di un testimone britannico) sosteneva che Villeneuve, noto per i suoi “disordini mentali,” si fosse ucciso con un coltello nascosto, sopraffatto dalla vergogna e dal timore del disonore.
Altri sostennero l’ipotesi di un assassinio su ordine di “un alto personaggio potente” o di Napoleone stesso (nonostante l’assenza di un interesse apparente), per impedire che l’Ammiraglio rivelasse scomode verità.
L’Ammiraglio spagnolo Federico Gravina, gravemente ferito al gomito, sbarcò a Cadice. Le sue condizioni peggiorarono progressivamente a causa delle febbri, della perdita di sangue e dello sconforto per il disastro.
Nonostante l’elogio e la nomina a Capitano Generale da parte di Re Carlo IV, Gravina morì il 2 marzo 1806. La sua fine fu celebrata con onore e profonda partecipazione popolare. Gravina fu ricordato come un comandante esemplare: colto, coraggioso, sereno nell’emergenza e di grande umanità verso i suoi sottoposti. La sua morte fu pianta anche dal nemico; l’Ammiraglio Collingwood espresse il suo cordoglio, e la “Cronaca di Gibilterra” riconobbe in lui “l’ufficiale più sperimentato” della Marina spagnola.

Il combattimento di Trafalgar fu per la potenza navale di Francia e Spagna una catastrofe da cui non si risolleveranno per molto tempo. La Gran Bretagna era riuscita ad annientare chi aveva osato sfidarla.
Era costata la vita ai tre comandanti in capo delle potenze coinvolte e il ricordo delle “azioni gloriose” individuali non bastò a compensare l’amarezza per la sconfitta e per la sorte toccata ai suoi comandanti.
Alcune testimonianze
Le ultime parole di Nelson raccolte dal medico che lo assistette dopo essere stato colpito da un proiettile francese:
“His Lordship then desired I would rub his chest; he said, ‘This is the warmest place,’ and alluded to the warmth of my hand. He appeared to be in great pain and frequently said: ‘God bless you, Hardy!’ and at last, ‘Thank God, I have done my duty’.” [25]
“Sua Signoria mi chiese di strofinargli il petto; disse: ‘Questo è il punto più caldo’, riferendosi al calore della mia mano. Sembrava provare molto dolore e ripeteva spesso: ‘Dio ti benedica, Hardy!’, e infine disse: ‘Grazie a Dio, ho compiuto il mio dovere’.”
Il Viceammiraglio Cuthbert Collingwood, successore di Nelson al comando, scrive alla moglie il 22 ottobre 1805 (giorno dopo la battaglia):
“The day was ours, but dear Nelson was killed. I am made miserable by his loss, though I must not let it cast me down. We have done our duty and more than done it.”
“La giornata fu nostra, ma il caro Nelson fu ucciso. Sono profondamente afflitto per la sua perdita, anche se non posso permettermi di abbattermi. Abbiamo compiuto il nostro dovere, e anche di più.”
La descrizione realistica e cruda del combattimento da parte di un marinaio semplice britannico, anonimo: [26]
“The smoke was so thick we could barely see the enemy; only the flashes of their guns gave us their position. The noise was hellish – shot and splinters flying about us like hail.”
“Il fumo era così denso che a malapena riuscivamo a vedere il nemico; solo i lampi dei loro cannoni ci indicavano la loro posizione. Il rumore era infernale – proiettili e schegge volavano attorno a noi come grandine.”
Esiste, inoltre, una testimonianza diretta di Federico Carlo Gravina relativa alla Battaglia di Trafalgar. Un estratto del “Rapporto di Gravina” è disponibile sul sito della Fondazione Napoleone:
“It wanted eight minutes to noon when an English three-decker broke through the centre of our line, being seconded in this manoeuvre by the Vessels which followed in its wake. The other leading ships of the enemy’s columns did the same. One of them passed down our rear, a third laid herself between the “Achille” and the “Ildefonso”, and from this moment the action was nothing but so many sanguinary single combats within pistol-shot: the greater part of them being between the whole of the Enemy’s Fleet and half of ours; several boardings necessarily took place. I do not possess the data requisite for giving your Highness a detailed and particular account of these single fights, nor can I speak with certainty of the movements of the Van, which, I am informed, tacked at the commencement of the battle in order to support those who were assailed. I can, however, confidently assure you that every ship, French as well as Spanish, which fought in my sight, performed its duty to the utmost, and that this Ship, after a terrific contest of four hours with three or four of the Enemy’s Vessels, its ringing destroyed, its sails shot through and through, its masts and topmasts riddled, and every respect in a most deplorable condition, was most seasonably relieved by the San Justo, a Spanish, and the Neptune, a French ship, which junction drove off the Enemy, and enabled the Rayo, the Montanes, the Asis, and the San Leandro, all of which had suffered severely, to unite with the other French ships, that were as just as bad a plight. As soon as this vessel found itself free of the Enemy, it directed the ships which had joined company to assist such vessels as were in need of their aid, and at nightfall, the cannonade having ceased on both sides, the Thémis frigate was ordered to tow us towards Cadiz Bay”.
“Mancavano otto minuti a mezzogiorno quando una nave inglese a tre ponti sfondò il centro della nostra linea, supportata in questa manovra dalle navi che la seguivano. Le altre navi di testa delle colonne nemiche fecero lo stesso. Una di esse ci passò alle spalle, una terza si piazzò tra l'”Achille” e l'”Ildefonso”, e da quel momento l’azione non fu altro che una serie di sanguinosi combattimenti singoli a tiro di pistola: la maggior parte dei quali tra l’intera flotta nemica e metà della nostra; si verificarono necessariamente diversi abbordaggi. Non possiedo i dati necessari per fornire a Vostra Altezza un resoconto dettagliato e particolareggiato di questi singoli combattimenti, né posso parlare con certezza dei movimenti dell’avanguardia, che, a quanto mi è stato riferito, virò all’inizio della battaglia per supportare coloro che erano stati assaliti. Posso, tuttavia, assicurarvi con sicurezza che ogni nave, francese e spagnola, che ha combattuto sotto i miei occhi, ha svolto il suo dovere al massimo, e che questa nave, dopo una terrificante lotta di quattro ore con tre o quattro navi nemiche, con la loro sirena distrutta, le vele trafitte, gli alberi e gli alberi di gabbia crivellati e ogni aspetto in condizioni deplorevoli, fu opportunamente alleviata dalla San Justo, una nave spagnola, e dalla Neptune, una nave francese, la cui congiunzione respinse la nave nemica e permise alla Rayo, alla Montanes, alla Asis e alla San Leandro, tutte gravemente colpite, di unirsi alle altre navi francesi, che si trovavano in condizioni altrettanto gravi. Non appena questa nave si trovò libera dal nemico, ordinò alle navi che si erano unite di prestare soccorso a quelle che ne avevano bisogno e, al calar della notte, cessati i cannoni da entrambe le parti, alla fregata Thémis fu ordinato di rimorchiarci verso la baia di Cadice”.
Il resoconto è scritto in prima persona e rappresenta, dunque, una fonte primaria da parte di Gravina, che descrive l’avanzata nemica, lo sfondamento della linea franco‑spagnola, e alcuni dettagli sulla combattività delle singole navi. (napoleon.org)
Epilogo

In seguito alla catastrofica battaglia di Trafalgar, l’Ammiraglio Don Federico Gravina era riuscito a ricondurre a Cadice i resti della flotta ispano-francese, sebbene gravemente ferito al braccio.
Costretto a sbarcare, non poté più tornare a bordo. I medici non vollero amputargli il braccio perché si illusero di poterlo guarire. Decisione che il Diario dell’Impero Francese esaltò, celebrando il braccio che aveva servito con onore. Pessima scelta dettata da una speranza vana.
Nonostante l’iniziale fiducia nella guarigione, il trauma, la perdita ematica e i dolori incessanti minarono la sua salute, conducendolo a un grave esaurimento. Un recupero temporaneo fu vanificato molto probabilmente, dal profondo dispiacere per il disastro navale e dalla consapevolezza dei suoi sforzi inutilmente profusi, che lo fecero ricadere in un languore fatale entro la fine di febbraio.
Il Re Carlo IV onorò l’ammiraglio con la nomina a Capitan Generale delle sue armate, un gesto di particolare affetto. Con grande altruismo , Gravina espresse la sua gioia non per l’onore personale, ma per le ricompense e la carità accordate dal Re agli ufficiali, ai marinai e alle vedove dei caduti.
La malattia progredì celermente. Assistito dal fratello Cardinale D. Pietro Gravina, l’Ammiraglio spirò il 2 marzo a mezzogiorno con religiosa rassegnazione, concludendo una carriera illustre e faticosa.
La sua fine, unitamente a quella degli altri due comandanti in capo a Trafalgar, sottolineò la tragica portata dello scontro.
La figura di Gravina è tramandata come quella di un comandante di eccezionali qualità, caratterizzato da equilibrio e lucidità nelle circostanze critiche, giustizia verso i subalterni e un’attività infaticabile.
Il suo valore fu riconosciuto persino dagli avversari: l’Ammiraglio Collingwood espresse condoglianze e la Cronica di Gibilterra lo definì “l’uffiziale più sperimentato delle sue armate navali,” riconoscendo come, sotto il suo comando, le squadre spagnole avessero sempre meritato l’elogio, anche nella sconfitta. Le sue esequie furono celebrate con solennità e grande partecipazione popolare.


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Bibliografia
Cartine
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29 ottobre 2025