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La storia del nonno raccontata dalla nipote

Intervista a Chiara Bazzanella

a cura di Anna Di Sapio e Marina Medi

Nel 2002 Chiara Bazzanella si laurea alla Statale di Milano con una tesi su suo nonno Tullio Bazzanella in Etiopia. Una vita di lavoro 1936-1978 . Nel 2005 la pubblica con Prospettive editrice.

Nel giugno 2007 Angelo Del Boca recensisce l’opera concludendo: “La storia del lungo soggiorno in Etiopia del Bazzanella, per l’esattezza 42 anni, è ricostruita non soltanto con devozione ed amore dalla nipote, ma anche valendosi di una documentazione fotografica davvero eccezionale e di un fitto carteggio epistolare. Gli avvenimenti politici e militari sono invece illustrati con l’ausilio di una serie di testi storici che Chiara Bazzanella ha saputo utilizzare con competenza e assoluto rigore.” (I sentieri della ricerca, rivista di storia contemporanea, n. 5, giugno 2007, Edizioni Centro Studi Piero Ginocchi, pp. 261-263)

Tullio in segheria – Archivio Famiglia Bazzanella

Tullio Bazzanella nasce a Mattarello (Trento) il 14 ottobre del 1905, a dieci anni resta orfano del padre caduto nel 1915 al forte di Luserna. E’ il primogenito di sei figli e deve pensare alla famiglia. Diventa apprendista in una falegnameria imparando così il mestiere. Anni dopo va a lavorare come operaio in Albania per una ditta di Trento, ed è lì che nel 1935 si arruola nella Legione Parini per partecipare alla guerra d’Etiopia.

Finito il conflitto Tullio sceglie di fermarsi nell’Impero appena conquistato e trova lavoro come direttore di una segheria situata sui monti Corchè, a sessanta chilometri circa da Addis Abeba.

Nel 1939 si sposa per procura e si fa raggiungere dalla moglie Maria Zanoni. Quando nel 1940 l’Italia entra in guerra Tullio viene arruolato nella Milizia della Forestale a pochi chilometri da casa  dove  nel frattempo la moglie dà alla luce il primogenito Giuliano il 31 ottobre del 1941.

Con la sconfitta degli italiani inizia il periodo di controllo britannico: gli inglesi, in attesa di far rimpatriare in Italia i civili, raccolgono i militari da destinare ai campi di concentramento.

Grazie all’aiuto degli operai etiopi con cui aveva lavorato e che lo nascondevano a turno nelle loro case, Tullio riesce a non farsi includere negli elenchi dei prigionieri.                                                                                                                 

Il 5 maggio 1941 il Negus rientra ad Addis Abeba dopo cinque anni di esilio e non ha interesse a rispedire a casa tutti gli italiani indistintamente, i lavoratori  più competenti devono continuare il lavoro già avviato e contribuire così alla modernizzazione del paese.

Nel 1947 Tullio viene assunto alla Ethiopian Wood Works dove continuerà a lavorare fino al 1978 anno del rientro definitivo in Italia.

Segheria sui Monti Botor – Archivio Famiglia Bazzanella

Non deve esser stato facile per i Bazzanella decidere di tornare in Italia perché ormai consideravano l’Etiopia la loro seconda patria, ma la situazione politica, seguita al colpo di stato che destituisce il Negus e instaura la dittatura di Menghistu, diventa ostile agli stranieri e alle loro proprietà che vengono nazionalizzate, per cui non resta altra scelta che il rimpatrio dopo quaranta anni di vita in Etiopia.                     

In Italia Tullio continua a mantenere una fitta corrispondenza con gli amici e i collaboratori rimasti in Etiopia ma non riesce a vedere la fine del regime di Menghistu perché muore nel 1989.

Scrive Chiara come conclusione:  «Partito come deciso fascista, deluso nelle sue aspettative e sempre più conscio dei valori che ogni uomo degno deve possedere, Tullio è riuscito a lasciare di sé, e soprattutto del suo lavoro, tracce che è stato per me commovente, e per chi legge mi auguro di qualche interesse, ripercorrere».

 Tullio con alcuni collaboratori – Archivio Famiglia Bazzanella

Intervista a Chiara Bazzanella

Come è maturata la scelta di fare la tesi su tuo nonno Tullio?

Mio nonno è mancato quando io avevo 12 anni. Eravamo molto legati. Era un nonno affettuoso e parecchio intraprendente, e adoravo stare insieme a lui. Devo anche a lui, come a mio padre, l’insegnamento del rispetto e l’inclusione. Per questo, crescendo, mi sono stupita nello scoprire e mettere a fuoco il suo ruolo di camicia nera durante il fascismo. Ho voluto approfondire le sue motivazioni e, ricostruendo la sua storia personale ho potuto realizzare quanto fosse facile, specie all’inizio dell’era fascista, aderire  a un’ideologia populista che parlava a gente che aveva bisogno di riempire la pancia di intere famiglie. Mio nonno era il primogenito di una numerosa famiglia e il suo senso di responsabilità lo ha portato a rimboccarsi le maniche nella convinzione di costruire qualcosa di grande per l’Italia. Poi è arrivata la disillusione, e solo il suo animo integro e rispettoso verso le vite altrui gli ha consentito di stringere salde relazioni con gli etiopi che per primi lo hanno nascosto all’epoca dei rimpatri imposti dagli inglesi.

Hai discusso con tuo padre del desiderio di fare di tuo nonno il protagonista della tua tesi di laurea?

Certamente. È grazie a mio padre se ho avuto la possibilità di recuperare tanta documentazione. Mio nonno, fatto strano per il periodo e per le sue possibilità, era un appassionato di foto, e mio padre, oltre a ereditare la stessa passione, ha saputo conservare una grande quantità di scatti, come pure di ritagli di giornali dell’epoca che sono risultati fondamentali per la stesura della tesi.

Inoltre, da adulta, ho potuto comprendere meglio la figura del nonno proprio grazie a mio papà che mi ricorda sempre quanto gli raccomandasse di stare alla larga dalla politica, proprio a causa dell’enorme delusione avuta dal fascismo.

 Tullio sui Monti Botor – Archivio Famiglia Bazzanella

Qual è stata la reazione del tuo docente Luigi Bruti Liberati?

Mi ha sostenuta e appoggiata, consigliandomi una serie di letture, in primis quelle di Del Boca, per meglio contestualizzare la vicenda personale. In effetti gli approfondimenti storici sono proseguiti di pari passo con i ritrovamenti di documenti cartacei e fotografici.

Da bambina che cosa ti raccontavano nonno Tullio e nonna Maria?

Mia nonna si è ammalata quando ero una bambina e non ho ricordi di suoi particolari aneddoti. Era peraltro una donna riservata e introversa. Di mio nonno ricordo racconti su agguati, colpi di fucile, postazioni e l’ironia rivolta verso il duce, descritto come un leader sopra le righe e con le manie di grandezza. Ma erano battute e storielle che, fino a quando non ho studiato personalmente la storia, non coglievo fino in fondo, se non percependo l’inutilità e la crudeltà della guerra.

Tuo padre ti raccontava della sia infanzia e giovinezza tra Etiopia ed Eritrea?

Sì certo. Ancora oggi affiorano alla memoria nuovi aneddoti. Mio padre, a differenza di molti suoi connazionali, è stato cresciuto in mezzo agli etiopi e quindi parla perfettamente l’amarico. Ha iniziato tardi a studiare, recuperando in fretta grazie a un’insegnate privata, che seguiva lui e pochi altri bambini. Poi, per evitare che studiasse nella scuola inglese, i genitori hanno preferito farlo trasferire in un collegio italiano in Eritrea. Dopo la laurea in ingegneria civile a Torino, le prime strade e i primi ponti li a costruiti proprio in Etiopia.

Nell’Introduzione della tesi racconti che tua madre, di origine torinese, veniva chiamata “l’africana” nel paese sul Lago di Garda in cui abitavate. Come mai?  Perché tu ti sentivi straniera in quello stesso paese?

Il paesino in cui sono cresciuta è piccolo, di appena 3 mila abitanti. Mia mamma è nata a Torino da genitori campani, mio padre in Etiopia da genitori trentini e mia sorella in Camerun da questo incrocio. Non abbiamo origini venete e io stessa, concepita in Camerun e nata a Caprino Veronese, ho trascorso la primissima infanzia in Arabia Saudita. Eravamo delle mosche bianche ma devo dire che mi sono sentita apolide più crescendo che da bambina. Non mi sono mancate le relazioni e l’integrazione, anzi. E non credo che mia mamma fosse etichettata “l’africana” con un senso di disprezzo, bensì per accentuare la provenienza  da zone etniche e lontane come un suo carattere distintivo.

L’impianto della tesi è scandito in quattro blocchi temporali dal 1936 al 1991: la guerra per l’Impero; l’Impero fascista e la sua caduta; l’Impero di Hailè Selassié; il colpo di stato e la dittatura comunista. L’hai deciso in base ai documenti in tuo possesso?

Ho semplicemente seguito l’aspetto temporale. Ripercorrendo la Grande Storia vi ho affiancato i vari documenti che avevo a disposizione, immergendomi in vecchie scatole di scarpe e faldoni in cui son tutt’oggi custoditi per individuare la testimonianza e il dato personale da agganciare ai fatti storici.

Sei stata due volte in Etiopia, qual era lo scopo del primo viaggio e quali le tue impressioni?

Il primo viaggio è stato organizzato da mio padre che ha voluto mostrare alle sue figlie, io e mia sorella, i luoghi in cui è nato e cresciuto. È stato un viaggio intimo, emozionante e sorprendente sotto particolari aspetti. Primo fra tutti quello linguistico perché non avrei mai pensato che mio padre, a distanza di tanti anni, fosse in grado di sfoggiare una tale padronanza di una lingua tanto particolare. È riuscito a contattare la sua vecchia balia, alcuni dipendenti della falegnameria di cui mio nonno era responsabile ed è stato un susseguirsi di abbracci, lacrime e riordi.

I motivi che ti hanno spinta a fare un secondo viaggio?

Il secondo viaggio è stato dettato proprio dalla tesi. Sono stata in ambasciata e in uffici locali per cercare ulteriori documenti su permessi e attestazioni rilasciati a mio nonno. Devo dire che non è stato facile e soprattutto ho trovato spiacevole e stridente l’atteggiamento di alcuni funzionari  che hanno usato toni e frasi spiccatamente discriminanti e screditanti verso la popolazione locale.

Che cosa ha spinto tuo nonno a cambiare idee sul fascismo?

Una profonda delusione. L’aver constato con i propri occhi la violazione dei diritti umani, l’utilizzo dei gas e la mancanza di rispetto di regole che reputava inviolabili. Mio nonno è partito alla volta dell’Etiopia in nome del diritto a un posto al sole che non avrebbe probabilmente mai pensato di doversi accaparrare con tanta crudeltà e bassezza. Credo che gli sia bastato guardare negli occhi un etiope per riconoscere anche in esso l’appartenenza a un’unica razza, quella umana.

Quali aspetti della società/cultura etiope lo hanno impressionato favorevolmente e gli hanno fatto amare il paese e la sua gente?

L’accoglienza, senza dubbio, e la fierezza. L’Etiopia, del resto, è l’unico Paese africano, insieme alla Liberia, a non essere mai stato effettivamente colonizzato, e ciò lo si deve a una forte e radicata cultura.

Quali aspetti ha sentito profondamente diversi da sé, italiano, e gli hanno fatto disperare sulla possibilità che il paese potesse avere uno sviluppo economico e politico?

Non credo che abbia mai disperato su un possibile sviluppo economico e politico del Paese. Anzi. L’Etiopia ha rappresentato per lui il territorio in cui potersi costruire un futuro soddisfacente e valido. Il ruolo di braccio destra nella falegnameria in cui ha lavorato per una vita gli ha consentito di garantire gli studi a mio padre e anche di costruirsi una casa in Italia. Credo che l’arrivo di Menghistu non fosse per lui prevedibile o scontato e che abbia sofferto per le sorti dell’Etiopia proprio come fosse stato un autoctono.

Scrivi alla fine dell’Introduzione: «Ciò che si è rivelato più arduo durante la stesura del materiale è stato il dover trasferire sulla carta l’emozione personale e soggettiva suscitata in me da certi documenti – primo fra tutti l’intervista del 1966 a mio nonno rinvenuta nell’archivio della Rai – sotto forma di dato oggettivo. Del resto mi sono fin da subito resa conto dell’importanza di tale processo al fine di dare veridicità e interesse a una insolita, ma pur sempre comune, storia di vita.»

Non credi sia importante che gli storici si interessino anche alla vita sociale del passato, alla gente comune, ai vissuti e alle esperienze personali? Recuperare le soggettività e i vissuti dal “basso” permette di osservare l’impatto degli avvenimenti sugli individui.

Senza dubbio. Oggi da giornalista mi ritrovo spesso a raccontare e scrivere storie di gente comune, dal basso. Lavorando per un quotidiano vivo la frustrazione di non poterle approfondire come meriterebbero. Narrando storie personali che si intrecciano a vissuti intimi un po’ di emozione è fisiologica. Si cresce con rimandi alla storia e aneddoti indecifrabili da bambini, per poi rendersi improvvisamente conto di quanto siano l’essenza stessa della Storia.

Il fatto che lavori in una Ong ha a che fare con la storia della tua famiglia?

Probabilmente sì. Sono approdata all’Ong in realtà per caso, dopo un corso di formazione con taglio giornalistico e con il ruolo quindi di ufficio stampa. Dell’America Latina conoscevo molto meno rispetto all’Africa, ma mi sono subito resa conto che dittature e soprusi si assomigliano tutti e di quanto sia quindi fondamentale impegnarsi per, come dice l’associazione per cui lavoro, garantire una vita dignitosa a tutti. Inoltre l’approccio per nulla assistenzialista ma piuttosto di cooperazione con partner locali per ottenere obiettivi duraturi nel tempo mi ricorda proprio lo stile di mio nonno (e pure di mio padre), che ha stretto legami forti di amicizia, stima reciproca e crescita comune con le persone del Paese in cui in fondo era lui l’ospite e l’ “intruso”.

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11 ottobre 2021